Il teatro, si sa, è fatto di convenzioni. Tocca crederci e fare in modo di essere credibili. Vuoi fare Giulietta a quarantadue anni? Convincimi. Questo per dire che Laura Lattuada, leva 1960 senza misteri, in scena pare una splendida quarantenne. Duttile, energica, corpo sottile forgiato da dodici chilometri di corsa quotidiana, caschetto sbarazzino appena sotto le orecchie, sorriso sincero. Si presenta così dietro il leggio del suo recente lavoro, “Sorelle”, che la vede in scena insieme a Sarah Biacchi in un testo del drammaturgo Alberto Bassetti, dirette da Pino Strabioli. Una mise en espace che ha debuttato a Roma all’interno della rassegna “I solisti del Teatro ai Giardini della Filarmonica”, sorta di «test – ci spiega – per capire le potenzialità della storia». Quella di due sorelle unite e divise dalla morte dei genitori e da una casa che non si capisce se sia la tana comune in cui ripararsi, oppure un onere, o una risorsa. Dipende.
Cosa l’ha conquistata del testo di Bassetti?
«Il fatto che si tratti innanzitutto di un’indagine sulla vita, sull’esistenza, non solo sul rapporto tra due sorelle. In questo spaccato di vita delle due, alcuni di noi, interpreti o spettatori, si possono in qualche modo ritrovare e sono anche liberi di immaginarsi una fine, un prosieguo che non è scritto».
Che indicazioni vi ha dato Strabioli?
«Ci ha lasciato libere di immaginarci la fine. Sarah se la immagina bella».
Io invece ho avuto la sensazione che il suo personaggio mediti il suicidio.
«Ho avuto la sensazione anch’io ma poi chissà. L’interesse sta proprio qui, nel dubbio che resta aperto».
In genere come sceglie un testo?
«Ho interpretato i classici greci, Goldoni, Pirandello, la commedia contemporanea e oggigiorno scelgo sulla base della possibilità di lavorare armoniosamente. Mi sono ritrovata spesso in situazioni di conflitto e su questo piano ho già dato. Dico sempre che questo è il lavoro più bello del mondo ma a condizione che ci sia condivisione, non solo di un modo di lavorare ma di vivere. Non voglio, dopo ogni spettacolo, dover rientrare in albergo con il mal di stomaco. Però mi piace mettermi in gioco, lavorare con registi giovani, affrontare drammaturgie particolari. Ho un progetto imminente ma mi hanno fatto giurare di non anticipare nulla prima della conferenza stampa».
La sua notorietà è indissolubilmente legata a “Storia di Anna”, sceneggiato Rai dell’81 diretto da Salvatore Nocita, dove interpretava una tossicodipendente, che le è valso anche numerosi riconoscimenti. Che ricordo ha?
«È stato un inizio fortunatissimo ma io ero molto giovane ed è stato un lavoro durissimo, non possedevo gli strumenti sufficienti per interpretare quel ruolo in modo distaccato e, più che interpretarlo, l’ho proprio vissuto e poi ho avuto un esaurimento».
Oggi sembra più vicina a un approccio distaccato al personaggio.
«Assolutamente. Sono contraria a ogni forma di cannibalismo emotivo. Mi viene in mente Mastroianni che dopo un ciack drammatico si dice che chiedesse “‘Ndo se va a magnà?”».
Lei ha lavorato con dei giganti della scena, da Gigi Proietti a Franca Nuti con cui ha proprio debuttato in teatro.
«Un’attrice immensa. La seguivo fin da ragazzina e quando ho avuto la fortuna di lavorare con lei restavo in quinta a osservarla. Ero così affascinata che al provino per “Storia di Anna” ho portato un pezzo fatto da lei, ma era di una donna di quarant’anni e io ne avevo venti».
Però l’hanno presa.
«Mi hanno presa».
Com’è andata con Proietti?
«Bene, dopo una serie infinita di provini. Facevo Rossana nel “Cyrano de Bergerac”, quindi il ruolo protagonista. Io, unica milanese in una compagnia di romani, trenta personaggi, principalmente suoi allievi».
Mi sta dicendo che non è stato facile?
«Mi ha insegnato a essere meno rigida, io ero proprio milanese dentro».
Qual è il suo rapporto con Roma?
«Ora è ottimo, ho fatto pace, anche se all’inizio è stato faticoso. Mi sono trasferita dai primi anni Novanta quando Milano era cupa, arida. Roma invece, nonostante le mille difficoltà, è talmente bella che mi riconcilia con la vita. Mi metto le scarpe basse e vado a camminare. Non tornerei più a vivere a Milano».
Accanto al lavoro di attrice affianca ormai da molti anni quello di conduttrice televisiva. Il pubblico l’ha conosciuta accanto a Luciano Rispoli. Che esperienza era stata?
«Ero stata ospite nella sua trasmissione mentre ero in tournée al Carignano di Torino e poco dopo mi ha proposto di lavorare con lui. È stato molto divertente, tutte le trasmissioni erano in diretta. Lui rappresentava la garanzia del professionista, io lo stupore di una “novizia” che invece di ascoltare le interviste si ritrovava a farle».
Recentemente ha condotto su Sky un programma dove andava a intervistare persone e personaggi nelle loro case. Com’è la sua casa ideale?
«Quella in cui vivo a Roma mi piace molto, ma quella dove sono ora è la casa ideale. Immersa nel verde, a un’ora di macchina da Roma, che vedo in lontananza, un giardino che curo personalmente. Ho passato qui il lockdown facendo lunghe passeggiate nei boschi».
Qual è il suo viaggio del cuore?
«Le città del cuore sono Parigi e Venezia. Amo la Sicilia dove sto per trascorrere gli ultimi scampoli di vacanza. Tendo a tornare nelle zone che conosco, dove sono stata bene. Se per esempio scopro un buon ristorante mi piace tornarci, senza cercare la novità».
A proposito, qual è il suo rapporto con la cucina?
«Sono un’ottima cuoca, me lo dico da sola. Organizzo anche le cene di quartiere. Alle tre di pomeriggio sono capace di improvvisare una cena per dieci persone. Amo usare le spezie, i piatti etnici, ma sono brava nel risotto con l’ossobuco e il brasato al vino rosso».
A cura di Alessandra Bernocco