Dribblare un’ingiustizia o un pregiudizio, anche per chi di mestiere ha fatto l’attaccante – e che attaccante -, è una missione tutt’altro che semplice. Lo sa bene l’ex calciatore Giuseppe Signori, che ha visto la sua vita mutare radicalmente il primo giugno del 2011 e che oggi sta cercando di voltare pagina e ricominciare a vivere. Arrestato nell’ambito di un’inchiesta sulle scommesse nel mondo del calcio, definito come “il boss dei boss” di un sistema che – secondo l’accusa – truccava le partite, nel 2021 Beppegol è stato completamente scagionato, ottenendo la piena assoluzione «perché il fatto non sussiste». Oggi è un uomo sereno, consapevole, orgogliosamente innocente. Un uomo desideroso di ripartire, magari proprio dal calcio, il suo primo amore, quello che lo ha travolto da ragazzino all’oratorio e che lo ha portato sino alla finale dei Mondiali. In attesa dell’evento che lo vedrà protagonista a Cuneo (ne parliamo nel box nell’altra pagina), noi di IDEA lo abbiamo intervistato.
Signori, a più di dieci anni di distanza, è riuscito a darsi una spiegazione di tutto quello che le è accaduto?
«In quel momento avevo l’identikit perfetto. Mi piaceva scommettere, avevo un nome famoso e non ero tesserato per alcuna società. Non avendo club alle spalle, scompariva qualsiasi tipo di problematica. Credo che questo spieghi tutto».
Nella sua autobiografia e nel docufilm a essa ispirato, dice che il segreto è stato quello di non arrendersi. Dove ha trovato la forza per non mollare?
«Me l’hanno trasmessa moglie, figli, famiglia e amici. Sicuramente poi ho trovato il coraggio anche dentro me stesso. In questo mi è servita la mia esperienza da calciatore, che mi ha permesso di sopportare ciò che stavo passando, dal dolore fisico a quello psicologico. Penso, ad esempio, al 1998, quando dopo un’operazione all’ernia del disco mi ritrovai senza squadra. Fu un momento davvero duro e difficile, prima della rinascita avvenuta poi con il Bologna».
Rinascita proprio come quella legata all’assoluzione, ottenuta dopo aver rifiutato il patteggiamento prima e la prescrizione poi. Qual è stata la sua prima sensazione in quel momento?
«Era un macigno che mi portavo addosso da dieci anni, è stato come togliersi un peso. C’è stata anzitutto una sensazione di liberazione, non di felicità; la felicità comincio ad apprezzarla adesso, anche nel riscontro quotidiano con la gente».
Come ha vissuto la disparità con cui alcuni media hanno trattato arresto e assoluzione? Le ha dato fastidio?
«No, perché è la normalità: fa più scalpore un arrestato che un assolto. Non è giusto, ma è normale. Nel 2011 ho avuto la sfortuna di essere Beppe Signori, ma ora posso di nuovo – grazie anche al libro e al docufilm – gridare a tutti la mia innocenza. Il mio pensiero va a quelle famiglie che hanno vissuto situazioni simili: non hanno avuto alcuna risonanza mediatica e oggi non riescono a urlare a nessuno la propria innocenza. La sofferenza di questi dieci anni è stata la stessa, però».
Il mondo del calcio le è stato in qualche modo vicino in quel periodo così difficile?
«Ho avuto una grande fortuna: avere amici veri, anche nel mondo del calcio. Quelli che mi aspettavo di trovare dopo dieci anni ci sono effettivamente stati. Per me questa è stata una grande vittoria; ho ritrovato i legami autentici».
Se chiude gli occhi, qual è la prima immagine della sua carriera che le viene in mente, il ricordo più bello?
«Difficile scegliere, sarebbe troppo complicato. Ho in mente tantissime immagini. Dal debutto in Serie A al primo gol, ma anche l’oratorio o le giovanili nell’Inter, prima di essere scartato. Si è trattato di un percorso intenso e ogni tappa, anche la più piccola, è stata fondamentale».
Ha qualche rimpianto?
«L’unico rimpianto della mia carriera è quello di aver “rinunciato” a giocare la finale dei Mondiali a Usa ’94, contro il Brasile, dal momento che avevo chiesto al ct Sacchi di schierarmi soltanto da attaccante. Una partita che, se potessi, oggi giocherei anche in porta al posto di Pagliuca».
Cosa ne pensa delle difficoltà attuali del sistema calcistico italiano?
«È un sistema da cambiare, lo diciamo ormai da tanti anni. Bisogna prima di tutto rivalorizzare i settori giovanili: purtroppo abbiamo una carenza di talenti che non si verificava da generazioni».
Le piacerebbe tornare nel calcio, magari proprio per aiutare i più giovani?
«La speranza c’è sempre. Peraltro, nel 2010 ho conseguito a Coverciano il patentino da allenatore Uefa Pro A. Il mio sogno era quello di allenare, ma capisco le difficoltà e i timori. L’Italia è un Paese molto moralista e anche se vieni assolto ti rimane addosso un’etichetta. So che non è facile, ma se qualcuno vorrà puntare su di me, ne sarò veramente felice. Sarebbe bello ripartire dai giovani. Credo che per loro sia importante trovare dei bravi insegnanti ancor prima che dei bravi allenatori».
Negli ultimi anni, intanto, ha scoperto un’altra passione, il padel. Com’è nata?
«Sono sempre stato un discreto giocatore di tennis. Lì però quando giochi devi rincorrere continuamente la pallina, mentre con il padel si fa molta meno fatica. È uno sport parecchio divertente, che sta prendendo sempre più piede. Ti tiene in allenamento, è bello insomma».
Proprio la passione per il padel la porterà a Cuneo. Qual è il suo legame con la provincia Granda e il Piemonte?
«Per ora non c’è un legame particolare, ma sono un amante dei vini e del tartufo. Ogni regione ha le sue particolarità, le eccellenze piemontesi sono assolutamente un valore aggiunto per il nostro Paese».
Domenico Abbondandolo