«cultura del dono il vero antidoto ai mali di oggi»

Il filosofo e teologo Vito Mancuso a Cuneo, ospite della Fondazione Crc: «Possiamo ritrovare fiducia»

0
1

Il dono come terapia per la sfiducia emotiva e morale che attanaglia la nostra epoca. Aprirsi al­l’altro, fidarsi di lui è la chiave per rimettere al centro la di­mensione relazionale e te­ne­re accesa la speranza. Lo so­stiene con decisione Vito Man­­­cuso, teologo e filosofo brianzolo, docente presso il ma­ster di Meditazione e Neu­ro­scienze dell’Università di Udi­­ne, esperto di “Filosofia del­le Relazioni”. In occasione del­l’evento promosso dalla Fon­da­zione Crc che lo ha visto pro­­tagonista a Cuneo – di cui parliamo nel box nell’altra pagina – noi di IDEA lo abbiamo intervistato.

Professor Mancuso, in virtù del­la natura intrinsecamente relazionale dell’uomo, quanto è centrale la prospettiva del dono?
«La prospettiva relazionale del dono è centrale nella mi­sura in cui fa emergere una natura umana rivolta ad altro e non semplicemente a sé stes­sa. La natura relazionale è intrinseca per l’essere umano e per ogni specie vivente, ma può essere in relazione a sé, come una specie di circolo chiuso, per cui esco da me per poi tornare a me stesso, oppure posso uscire da me senza il desiderio di tornare a me stesso ma appunto donando. Quan­do si dona, il cerchio viene fatto esplodere e si ge­nera la figura della spirale. Ne va della nostra natura: siamo semplicemente “do ut des”, cioè io do perché tu a tua vol­ta dia, secondo una filosofia di vita che è solo interesse, o pos­siamo essere talora gratuità, cioè io do perché tu sia? Se questo è, c’è spazio per la gratuità, la generosità, la scoperta, non per l’interesse ma per l’inter-essere».

Come si ricolloca questa centralità ai tempi del­­­la pandemia e della guerra?

«La cultura del dono può essere un grande antidoto rispetto alla sfiducia umana che caratterizza il nostro tempo e che trova, soprattutto nella guerra, un luogo di ricarica del pessimismo. Penso che sia la malattia spirituale del nostro tempo. Sono convinto che esistano dei mali fisici, ma anche psichici e spirituali. Quello spirituale è il pessimismo di fondo rispetto a noi stessi. La cultura del dono, laddove è praticata, può essere un rimedio efficace contro questa malattia che genera male, nella misura in cui alimenta una cultura di sospetto e di difesa nei confronti degli altri esseri umani».

Per praticarla servirebbe for­se una rivoluzione morale?
«Abbiamo bisogno di riporre al centro l’etica e non più l’interesse. L’uomo non può essere ridotto alla semplice educazione economica, l’essere uma­no a una dimensione, come diceva Marcuse. Se si di­venta consapevoli della ca­pacità di generosità e dell’effettiva generosità che l’umanità pratica, si creano le condizioni per ritrovare fiducia e attuare la rivoluzione, o me­glio, la trasformazione del­la dimensione etica».

Che ruolo giocano la scuola e la Chiesa?
«La scuola è chiamata a una grandissima trasformazione. Spesso dà ai ragazzi cose di cui non hanno bisogno e, al contempo, non offre ciò di cui hanno urgente necessità, un po’ come un assetato nel de­serto al quale si dà la bussola e non l’acqua. Non ho nulla in contrario agli strumenti d’i­stru­zione, però l’emergenza an­tropologica ri­chiede un investimento sul­l’e­duca­zio­ne. La scuola istruisce, ma non educa. Deve in­ve­ce educare alla generosità, alla gentilezza, all’ascolto. Lo stesso vale per la Chiesa: dovrebbe rinnovarsi alla luce di questa capacità di uscire da sé, preoccupandosi meno di sé stessa».

È altrettanto importante sensibilizzare su certi argomenti, attraverso eventi come quello che si è svolto a Cuneo. Quan­to contano iniziative di questo tipo?

«Gli eventi possono costituire occasioni di riflessione e di cambiamento. Questo è il compito della cultura, che può limitarsi a essere mera erudizione oppure può avere una funzione politica, nel senso più alto del termine. Svolge quest’ultima funzione quando crea eventi che escono dal circuito di pochi interessati e attraggono l’attenzione di una parte più considerevole di persone».

Grazie a questo evento è an­che potuto tornare nella Gran­da. Qual è il suo rapporto con la provincia di Cuneo?

«Ho vissuto per vent’anni nel Monferrato, quindi sento una certa aria di casa. Torno sempre volentieri in provincia di Cuneo, come per quest’evento del­la Fondazione Crc o per il Premio Gratitudine consegnato dalla Fondazione Ospe­dale Alba-Bra a Maria Franca Ferrero. È la provincia più bella del Piemonte, la più ricca di panorami, sapori e creatività industriale. Ricordo poi Scrit­torin­cit­tà, uno dei fe­stival più belli, a cui ho partecipato diverse volte. Ho tanti amici da quelle parti, per me è un privilegio essere invitato».

Articolo a cura di Domenico Abbondandolo