Paola che vola altissimo. Paola che schiaccia forte. Paola che trasforma i palloni in missili. Paola che però si scopre fragile nei suoi 23 anni, travolta da pressioni che valicano i recinti dello sport. Paola che è italiana però ha la pelle nera e ancora nel 2022 c’è chi si meraviglia, chi fatica ad accettarlo e chi la offende. Paola che trascina le azzurre ma viene bersagliata se una volta è sottotono e allora c’è sempre qualche imbecille che vomita odio sui social e non è facile far finta di nulla. Paola che è glaciale in partita, che doma le emozioni e annichilisce le avversarie, ma poi scoppia in lacrime, sfoga rabbia e amarezza, arriva a confidare perfino di voler lasciare la Nazionale.
Succede dopo la finalina per il bronzo ai Mondiali di pallavolo, l’Italia vince e Paola Egonu, la sua stella, la più forte giocatrice della manifestazione, si scioglie nel pianto: da anni si ritrova addosso migliaia di occhi e responsabilità infinite, l’etichetta di predestinata che si porta appresso da bambina può essere fortuna ma anche condanna, così basta una goccia e il vaso trabocca, cade la maschera della campionessa senza macchia né paura e resta il volto di una ragazza giovane che sogna la normalità, stanca di aspettative e di cattiverie troppo grandi.
Nella partita precedente, con il Brasile, in palio la finale, era scivolata in errori inattesi, comunque non aveva toccato gli abituali standard di rendimento, elevatissimi, e il tribunale social l’aveva assalita, ferita con offese ingiuste e gravi. Non ha retto, stavolta. Perché non è facile, a 23 anni, essere sempre al centro dell’attenzione, nel bene e nel male, e perché tra le offese, drammaticamente immancabili, c’erano quelle di matrice razzista: «Basta, non puoi capire, mi hanno addirittura chiesto perché sono italiana – ha detto Paola, in lacrime, al suo agente Marco Regazzoni -. Ora sono stanca. Questa è l’ultima partita che faccio con la Nazionale».
Si dirà: sono pochi ignoranti. Ma la quotidianità fa pensare a intolleranza e discriminazione diffuse: nelle ore seguenti allo sfogo della pallavolista, un’altra azzurra, Zaynab Dosso, primatista nazionale nei 100 metri piani, ha denunciato un’aggressione verbale a sfondo razzista in un bar, una voce isolata alla quale però nessuna delle persone attorno s’è opposta. E le due atlete, almeno, hanno la forza di essere ascoltate, quanta diffidenza sperimentano e quanta umiliazione sopportano ragazze e ragazzi lontani dei riflettori? Abbiamo apprezzato l’onda solidale che si è sollevata, l’affetto che ha circondato le due giovani, ma vorremmo che lo ricevessero ogni giorno persone comuni senza lo stesso privilegio di poter condividere pubblicamente la sofferenza e, così, aiutare a riflettere. Vorremmo identica veemente ribellione quando vittima non è un campione, ma un compagno di scuola, un vicino di casa, uno sconosciuto. Il primo passo è ammettere che dietro le piccole e grandi aggressioni di ogni giorno, reali o virtuali che siano, esiste un problema di razzismo e non, come spesso vogliamo illuderci, una ragazzata o un’espressione di sparuta ignoranza. Il secondo è comprendere che lacrime, sfoghi o anche silenzi impauriti sono dettati da ferite profonde: non basta, per curarle, un tono benevolo o l’invito a far finta di niente.