«Registro storie per testimoniare il disagio tra noi»

Le interviste di Ascanio Celestini: «Il gap tra ricchi e poveri, vera malattia dell’occidente»

0
1

Si chiama Ascanio come il figlio di Enea ma la mitologia non c’entra. «È il nome del primo datore di lavoro di mio padre, restauratore di mobili». Però ha chiamato suo figlio come il più celebre eroe troiano: Ettore. E allora? «Mi sembrava che con Celestini stesse bene un nome sdrucciolo. Mia figlia si chiama Agata». Chiacchierare con Ascanio Celestini è come aprire una serie di link che a loro volta rinviano ad altri e ad altri ancora. Un uomo e un artista di quelli che molti definirebbero engagée e di fronte ai quali lui, attore, narratore, drammaturgo, regista e studioso attentissimo, sorriderebbe sornione perché che mai vorrà dire engagée: è forse possibile non essere dentro la storia sentendosi profondamente parte di essa proprio nel senso di prendere parte? È quello che Ascanio fa fin dai suoi esordi affrontando capitoli passati e presenti anche attraverso la documentazione sul campo. Dall’eccidio delle fosse ardeatine (“Radio clandestina”) ai licenziamenti di un call center (“Parole sante”), le sue sono sempre interviste con testimoni laterali, perlopiù inascoltati, che attraverso i suoi racconti prendono corpo e voce. Un approccio critico e insieme partecipe che mentre preserva da prese di posizione ideologiche, tiene viva quella tensione utopica di cui abbiamo sempre e di nuovo bisogno.
L’intervista sul campo è generalmente la prima fase del suo lavoro.
«Sì, vado e registro storie di vita. Non per raccontare la notizia di per sé ma quello che sta intorno alla notizia. Al giornalista interessa la notizia, meglio se eccezionale, a me il contesto, la testimonianza di chi ha assistito a un fatto. Io cerco di ricontestualizzare la storia, che non è un’operazione in contrapposizione con quella del giornalista: semplicemente è diversa».
Uno dei suoi primi spettacoli è “Milleuno”, trilogia dedicata alla memoria orale di chi vive nelle periferie della capitale romana a metà del XX secolo. In vent’anni è cambiato qualcosa?
«Quando parlo di periferia non penso tanto ai luoghi ma alle persone. È cresciuta la ricchezza e con essa la povertà. Il gap tra ricchi e poveri è sempre maggiore ed è la vera malattia dell’occidente».
Ai nuovi poveri, sfruttati senza diritti, ha dedicato “Parole Sante”, un documentario (poi anche un disco) che racconta la vicenda dei lavoratori precari dell’Atesia, il più grande call center italiano con sede a Cinecittà. Era il 2007 e non è cambiato nulla.
«Anzi: poco tempo fa mi sono trovato ad assistere a un’assemblea di lavoratori di un’azienda di consegne a domicilio. Sa dove? In un parcheggio di fronte a un bar, dove i lavoratori in questione, perlopiù africani, non potevano nemmeno prendersi un caffè perché non avevano i soldi. E pensare che lo Statuto dei lavoratori, datato 1970, prevede il diritto di avere uno spazio in cui poter riunirsi in assemblea. E invece questi non hanno nemmeno un luogo di lavoro».
Del 2005 è “La pecora nera. Elogio funebre del manicomio elettrico” (spettacolo e libro), una riflessione non senza ironia sull’istituzione del manicomio. C’è un rapporto tra disagio mentale e materiale?
«Certamente! Anche la salute mentale se puoi te la compri: attraverso il tempo di non lavoro, i farmaci giusti, il medico bravo, l’isolamento e la pace. Ma se si vive in quindici in due camere…».
Il confine tra normalità e follia è sempre più labile.
«Per “La pecora nera” ho intervistato tanti medici, infermieri, psichiatri. Un infermiere mi diede una risposta risolutrice. Non ti è mai capitato – mi disse – di tornare due volte all’automobile per sincerarti che sia chiusa? Ecco, se ti capita una o due volte è normale ma se ti capita dieci lo è di meno, anche se il fatto in sé è lo stesso. Tutti possiamo vivere un determinato disagio ma alcuni lo contengono, altri no. Il matto è colui che vive in modo più profondo quello che io vivo con leggerezza, magari seduto sul divano. E poi c’è chi nemmeno ce l’ha, il divano».
Senza andare troppo per il sottile, mi pare evidente che stiamo rischiando una pericolosa marcia indietro riguardo a diritti civili che davamo per acquisiti. Penso alle unioni civili, alla 194, penso anche al diritto di asilo e di accoglienza minacciato in nome di una identità nazionale.
«Evidentemente non eravamo così avanti come pensavamo e oggi lo scopriamo attraverso una parte di società che prova un senso di rivalsa. È mancato un lavoro di condivisione di idee e quelli che molti di noi considerano fondamenti della nostra cultura vengono messi in discussione. Se poi vogliamo parlare di cultura identitaria, allora noi siamo quelli che sono migrati con la valigia di cartone. Anche questo fa parte della nostra identità. La famiglia poi. La prima cosa che si studia in antropologia è proprio la famiglia, che è un’istituzione culturale. La natura non c’entra nulla. Ci sono culture in cui i figli delle prostitute sono considerati figli di tutti e tutto il villaggio se ne prende cura».
Il senso di rivalsa va di pari passo con lo sdoganamento di forme subdole di razzismo nei confronti di presunte e svariate diversità.
«Nemmeno tanto subdole. Le faccio un esempio. La presidente del consiglio nel discorso di insediamento si è rivolta a Aboubakar Soumahoro, parlamentare ivoriano, con il tu. Perché? Il lei è stata una conquista importante e invece ancora oggi ci si rivolge col tu a chi vive o crediamo che viva una condizione di subalternità. Non parlo solo del parlamentare nero, che non è affatto subalterno, ma anche del malato, della persona fragile. Nei manicomi, i medici si rivolgono ai pazienti con il tu, una forma di infantilizzazione della persona».
Un suggerimento al nuovo ministro della cultura riguardo al teatro?
«Mappatura dei teatri e delle compagnie e creazione di un circuito nazionale, una rete oltre la logica degli scambi, sulla cui base sostenere e produrre gli spettacoli».
Veniamo a “Museo Pasolini”, il suo tributo al poeta. Perché museo?
«Il museo non è qualcosa di statico ma il prodotto di una ricerca. Io ho fatto delle scelte e suggerisco un percorso espositivo. Pasolini, suo malgrado, ha vissuto situazioni che molto raccontano dell’Italia, dalla Seconda guerra mondiale al momento della sua uccisione. Il museo è quello che ci metti dentro».
E lei cosa ha messo?
«Cinque oggetti, materiali e immateriali: una poesia, l’invasione dell’Ungheria, la borsa di similpelle che conteneva l’esplosivo per la strage di piazza Fontana, il corpo di Pasolini. Un artista che va letto e studiato per intero».
A cura di Alessandra Bernocco