Ho conosciuto Severino Marcato molti anni fa, quando lavorava per Famiglia Cristiana: andavamo spesso a correre insieme, entrambi innamorati delle Langhe e della fotografia. Da allora le nostre vite si sono incrociate molte volte, come è normale per due fotografi che hanno scelto di lavorare nella stessa zona, io per La Stampa e lui per Gazzetta d’Alba. Oltre quel ruolo, avevamo e abbiamo entrambi i nostri impegni che ci portano in giro per il mondo. Due amici diversi ma simili nell’apprezzare la vita; mai in competizione, ma sempre solidali nell’aiutarsi quando le circostanze lo richiedono. Per raccontare la figura di Severino bisogna conoscerla bene: è un fotografo sensibile, innamorato del suo lavoro, un fotoreporter che ha sempre affrontato i suoi impegni senza badare alle difficoltà o agli orari, instancabile e nobile come la sua vocazione. Severino, per chi non lo conoscesse bene, è stato determinante per moltissimi reportage di Famiglia Cristiana nei Paesi poveri del mondo. Mentre io mi occupavo dell’America Latina, lui era impegnato in Africa o nel deserto del Ciad. I suoi reportage vanno oltre la fotografia, diventano quasi sempre gesti di impegno. La sua vocazione di cattolico impegnato lo ha indirizzato verso un profondo legame con tutti i poveri del mondo.
Ricordo in particolare un viaggio che facemmo insieme in Burkina Faso. Insistette molto perché ci andassi anch’io, voleva che vedessi, capissi e documentassi la sofferenza e l’emarginazione di quel popolo, composto da molte anime costrette a vivere in un inferno: donne abbandonate, orfani di madri e padri, morti di Aids e lebbra. Attraverso quell’esperienza ho potuto comprendere a fondo il suo impegno: nel suo piccolo, fa miracoli raccogliendo soldi e mezzi per la comunità di padre Vincenzo dell’Ordine dei Camilliani, che dedica ancora oggi la sua vita agli umili.
Approfittammo di quel viaggio per documentare il Sud del Sahel, una zona ad alto rischio: la povertà e lo sconforto si toccavano con mano. Non ci fermammo molto, qualche scatto e poi decidemmo di tornare a Ouagadougou, la capitale del Burkina Faso. Le immagini che realizzammo servirono in Occidente per informare sulla carestia e sulle conseguenze provocate dalle malattie e dalla mancanza perenne di acqua potabile.
Prima di quel viaggio ci fu anche un’avversità locale che documentammo insieme: l’alluvione del novembre 1994. Alba e le Langhe furono immerse dall’acqua e dal fango, tutti i telegiornali erano focalizzati su quella tragedia: fu un altro momento drammatico nel quale ci trovammo a lavorare fianco a fianco.
Un lavoro che durò due e più settimane, senza interruzioni: ci aiutammo reciprocamente, seguimmo i fatti di quei giorni documentando la calamità di quel tragico momento.
Severino è una delle memorie storiche di Alba: non c’è mai stata una manifestazione, piccola o grande che sia, che non lo abbia visto protagonista. Ha vissuto e raccontato con le sue fotografie momenti belli e brutti di un’intera regione. Ho incontrato molti fotografi girando per il mondo, dai caratteri più disparati: molti chiusi nei loro egocentrismi, altri sopra le righe, altri gelosi e chiusi nel loro piccolo mondo di carta stampata, altri ancora divertenti e solidali, impegnati tra fondali e luci. Severino, invece, silenzioso e regolato custode di un tempo che non ha mai tradito, è un fotografo che non ha sprecato la sua vita, che non ha dovuto dimostrare a nessuno la sua grandezza. Ancora oggi, che ha superato gli ottanta anni, non smette di adoperarsi; l’obiettivo della sua macchina non ha mai smesso di documentare, la sua passione lo porta a essere uno dei più anziani e resistenti. Dopo tanti anni di lavoro e di servizio alla comunità e al suo giornale penso sia un dovere quello di rendergli onore, dire grazie a nome di tutti. Scrivo queste poche righe come dono natalizio a un amico. Pur essendo io e Severino due persone diverse, abbiamo molti punti in comune: l’amore per la fotografia e la convinzione che per essere grandi non serva fare rumore. Bisogna saper usare la passione per consegnare al mondo un pezzettino di storia da custodire.
Testo e immagini a cura di Bruno Murialdo