Succede di andare a teatro e sganasciarsi dal ridere. Succede di scegliere il teatro proprio per quello. Per distrarsi, dimenticare, affogare i pensieri più neri in un secchio e sintonizzarsi su storie bizzarre che con la nostra quotidianità stagnante hanno poco a che fare. Succede di ridere insieme agli attori quando i personaggi ci sono simpatici e le battute incalzano, succede anche di interrompere con un applauso estemporaneo, a scena aperta, un siparietto ammiccante. E poi succede che su tutta la festa piombi il silenzio: inatteso, stordito, fitto come una nebbia che si diffonde in platea e ti toglie il respiro. Una coltellata con una sola battuta, una rivelazione che capovolge in una frazione di secondo quello che in teatro si chiama climax, il percorso emotivo di una situazione o di un personaggio, una frenata che inchioda di fronte a una rivelazione che contraddice lo spirito dominante fino a quel momento. È quel che succede in “Que serà”, testo scritto da Roberta Skerl e messo in scena da Paolo Triestino, attore e regista avvezzo per scelta e per indole a lavori in equilibrio tra commedia e quasi tragedia. In scena, accanto a lui e a Emanuele Barresi, Edy Angelillo, per un magnifico trio di amici che si ritrovano attorno a una tavola in cui si condivide cibo brasiliano, ricordi e rivelazioni.
Edy, non si può certo anticipare quello che è il cuore dello spettacolo, ma senza spoilerare, cosa l’ha conquistata di questo testo?
«L’ironia, la poesia, la leggerezza e la capacità di affrontare temi scomodi in modo lieve, facendoti arrivare messaggi seri e duri dritto al cuore. Credo che sia la grande forza di questo testo e che Roberta sia una delle autrici più brave che ci sono in Italia».
Il pubblico come ha reagito?
«Il pubblico è stato e continua a essere la prova che il testo funziona. Prima ride poi tace di colpo e si cade in un silenzio totale dove non si sente nemmeno un colpo di tosse».
Il tema affrontato appartiene ai cosiddetti “argomenti sensibili” e senza scendere nei dettagli si può dire che sfiora la malattia, anche grave. Non avete mai temuto di ferire la sensibilità di qualcuno?
«Sì, quella era la nostra paura. Ma non è stato così. Anzi, è persino successo che una signora che ha vissuto da vicino una situazione analoga sia venuta in camerino a ringraziarci e ci abbia detto che si è sentita meno sola».
Si può dire in ogni caso che lo spettacolo sia un inno all’amicizia. Cos’è l’amicizia per lei?
«È il sentimento più importante, in assoluto. A parte, naturalmente, l’amore per mio figlio Andrea, che ha ventidue anni. Mentre i mariti e i fidanzati passano, l’amicizia, quella vera, è per sempre».
E a teatro nascono anche grandi amicizie. Com’è il rapporto con Paolo, compagno di scena e regista?
«Ottimo, ci vogliamo bene e credo che in scena si veda. In teatro si creano piccoli nuclei tipo familiare e se non vai d’accordo sul palco si vede. Noi ci divertiamo moltissimo, anche in tournée. Io adoro le tournée, scoprire posti che mai avrei visitato, tipo Soverato, dove siamo stati recentemente. Le tournée ti permettono di conoscere l’Italia in lungo e il largo, una bella fortuna».
Le piace anche fare viaggi importanti o appartiene a quel genere di attori che finita la tournée si ritirano in campagna?
«Non potrei vivere senza viaggi. Mi piace andare in posti lontani, conoscere gente nuova, non sono stanziale. I soldi li spendo per quello, non certo per scarpe, borse, vestiti».
Il suo viaggio del cuore?
«Il Madagascar, un posto magnifico, per la natura e per le persone sempre sorridenti. Come città scelgo Singapore perché è un connubio perfetto di antico e tecnologico».
Posso ipotizzare che questa propensione al “nomadismo” le derivi dalla sua educazione familiare, al seguito dei suoi genitori, gli artisti di varietà Franco e Regina (Garofalo) che l’hanno abituata a lunghe tournée in giro per il mondo.
«È probabile, e durante i trasferimenti cantavamo di tutto, soprattutto Lucio Battisti».
«Quanti schiaffi sul set per una scena da rifare… E il grande Sordi mi chiamava “la Rita Hayworth de’ noantri”»
Quindi il suo destino era segnato.
«Mah, mia madre dice che cantavo sempre e che mi provavo i suoi vestiti, come fanno tutte le bambine. Ma insomma, si capiva che mi piaceva quel mondo. Poi però ho studiato molto: canto, danza, recitazione».
Il suo primo ingaggio ufficiale è stato nel cinema: “Ratataplan” di e con Maurizio Nichetti. Come andò?
«Da lì è partito tutto. Un provino e via. Ero giovanissima, diciott’anni e di quel film ho un ricordo bello e giocoso. Un film “piccolo”, costato pochissimo, che però è passato a Venezia. Quando Nichetti mi chiamò per dirmi “siamo a Venezia” non ci potevo credere».
Restando nel cinema, parliamo de “La bruttina stagionata”, diretto da Anna Di Francisca e tratto dal romanzo omonimo di Carmen Covito, per cui è stata candidata al David di Donatello come migliore attrice non protagonista.
«Interpretavo una stronzetta esagerata, buffa, stupida. È stato tutto molto divertente, a parte la scena finale dove venivo presa a schiaffi dalla protagonista, Carla Signoris. La regista voleva che lo schiaffo fosse vero, credibile quindi abbiamo dovuto rifare la scena quindici volte. Al terzo schiaffo Carla era desolata e io di vero avevo le lacrime, al quindicesimo mi sono ritrovata con la faccia gonfia».
A ventun anni invece è stata diretta da Alberto Sordi in “In viaggio con papà”, che ricordo ha?
«Un bel ricordo, giravamo la sera e avevamo tutta la mattina a disposizione, passavamo il tempo libero nella piscina dell’hotel, fantastico, in cui alloggiavamo. Ho soltanto il rimpianto di non avere approfittato abbastanza di quell’incontro per fargli tante domande. Ma ero troppo giovane e non mi rendevo conto della fortuna che avevo. Mi chiamava la Rita Hayworth de’ noantri».
Ecco, a proposito, come tiene a bada la sua cascata di riccioli rossi?
«Sono una manna dal cielo. Vivono di vita propria e non hanno bisogno di niente».
Tornando ai maestri, non posso non chiederle di Pietro Garinei che l’ha voluta in Rugantino.
«Un signore come non ce ne sono più. Lui andava a teatro a vedere gli attori pagando il biglietto e poi li sceglieva perché bravi e non perché già famosi. Non ricordo in che spettacolo mi vide ma mi disse “ti piacerebbe fare Eusebia? Domani passa in studio e firmi il contratto”. Adesso invece devi pregare i registi di venirti a vedere».
E comunque la popolarità non guasta. Ricordo la sua Nada a “Tale e quale show”, qualche anno fa.
«Un programma che visto da fuori sembra leggero ma vissuto dall’interno è tutt’altra cosa. Un’esperienza difficile e una bella prova, importante più per me stessa che per il programma in sé. Ogni settimana una canzone nuova e un personaggio diverso. Io non sono un’imitatrice e alla prima puntata, quando dovevo interpretare Antonella Ruggiero dei Matia Bazar, me la facevo sotto, ero terrorizzata. Poi però ho deciso di divertirmi e ci sono riuscita».
A cura di Alessandra Bernocco