Carenza di personale medico e sanitario, pronto soccorso al collasso, lunghe liste d’attesa. Il Covid, oltre che sulle persone, ha lasciato profondi segni nell’intero settore sanitario. In tutta Italia. Come curare queste ferite? Lo abbiamo chiesto a un grande conoscitore di questo ambito, il medico albese Francesco Morabito, già direttore dell’Azienda Sanitaria Locale Cn2, oggi professionista del Gruppo Cidimu.
Morabito, partiamo da uno dei problemi che la pandemia ha accentuato maggiormente: la carenza di personale. Qual è la situazione?
«È una questione purtroppo annosa, di cui mi ero già occupato più volte in passato, coinvolgendo anche la vostra rivista. Nel 2017 si ipotizzava che dei 111mila medici attivi in quel momento ben 55mila avrebbero cessato l’attività tra il 2018 e il 2025. E questa previsione si sta grossomodo concretizzando: se il numero dei medici resta comunque in linea con quello della media europea, non vale lo stesso discorso per gli infermieri, il cui comparto è decisamente sottodimensionato».
Quali sono le cause?
«I pensionamenti, la decisione di cessare l’attività e le conseguenze dell’emergenza sanitaria causata dal Covid. Ma anche i lunghi percorsi che gli aspiranti medici e operatori sanitari devono compiere prima di poter svolgere la professione: è altamente demotivante».
Come intervenire?
«Anzitutto, uniformando a livello nazionale i percorsi formativi stessi: oggi ci sono disparità da regione a regione. Poi, come avevo già sottolineato più volte in passato, sarebbe opportuno che i futuri medici potessero lavorare in ambito ospedaliero già durante il periodo in cui frequentano la scuola di specialità. In certi territori italiani ciò è già possibile, ma non in tutti. Questa possibilità andrebbe estesa ovunque, come del resto accadeva anni addietro. Inoltre, per accrescere le motivazioni potrebbe essere utile favorire le possibilità carrieristiche di ciascuno, ultimamente decisamente ridotte».
La retribuzione è adeguata?
«Purtroppo no. I medici e gli operatori sanitari italiani sono pagati meno rispetto alla media europea. Del resto, in Italia, i finanziamenti pubblici per la sanità sono sempre stati inferiori rispetto a quanto avviene in altri Paesi. Ciò ha determinato problematiche enormi».
In tutto questo qual è il ruolo della scuola?
«La scuola e, in generale, tutte le realtà che si occupano di formare i medici e gli operatori sanitari del domani sono fondamentali. Sarebbe però necessario perfezionare le sinergie esistenti tra università, scuole di specialità e il settore sanitario. Penso alla creazione di una “linea diretta” tra il mondo formativo e quello della sanità per far sì che gli studenti possano iniziare a fare esperienza pratica già nel periodo destinato alla formazione. Insomma, la relazione tra questi comparti va resa più fluida».
E sul rapporto sanità pubblica-sanità privata quali sono le sue considerazioni?
«Vale anche qui il discorso fatto per le scuole: il rapporto tra i due mondi andrebbe potenziato. In particolare, si potrebbero intensificare le collaborazioni per quanto riguarda le attività che presentano maggiori problematiche. Cito, solo per fare qualche esempio, le liste d’attesa, la medicina d’urgenza e i servizi territoriali».
A proposito di servizi territoriali, cosa c’è da migliorare a suo avviso?
«Pure su questo fronte bisogna fare i conti con una carenza di medici, oltre che con tutte le questioni che ho citato prima. In più c’è un altro aspetto a sua volta piuttosto condizionante: i medici di medicina generale devono sempre più spesso fare i conti con una burocrazia esagerata. Si corre quasi il rischio che diventino dei burocrati, tutto ciò a scapito delle prestazioni da erogare ai pazienti. E questo non va bene. Probabilmente, e ci ricolleghiamo al discorso fatto prima sui finanziamenti pubblici, una disponibilità maggiore di risorse dedicate a questo ambito potrebbe migliorare la situazione. Ma non è l’unica soluzione che suggerisco».
Prego, prosegua.
«Qualora non si riuscisse a ovviare a tale carenza, potrebbe essere utile consentire anche ad alcuni medici che operano in determinati reparti ospedalieri (Medicina Generale, Chirurgia, eccetera) di avere in carico una quota di pazienti assistiti mutualisticamente, com’era nel passato quando addirittura non esisteva la guardia medica. Questa soluzione darebbe sollievo su molti fronti. In ultimo, ma si tratta in realtà di un argomento prioritario e trasversale, andrebbe rivista l’organizzazione generale della sanità in modo da gestire meglio e rendere maggiormente sostenibili i turni di lavoro, che il Covid ha reso in molti casi insostenibili».
Il Covid cosa deve insegnarci?
«Soprattutto un aspetto: avere negli ospedali dei reparti dedicati alle malattie infettive sarebbe importantissimo. Questo per dire che il Covid ci ha ricordato come la più antica delle regole sanitarie resti decisamente attuale: prevenire è sempre meglio che curare. Solo puntando sulla prevenzione – che passa anche e soprattutto attraverso un potenziamento del personale e dell’organizzazione – potremo farci trovare adeguatamente pronti in caso di eventuali future emergenze».
Al pronto soccorso arriva l’infermiere supervisore
Si chiama “nurse supervisor”, infermiere supervisore, ed è un nuovo ruolo istituito e in via di sperimentazione per ora presso il pronto soccorso dell’ospedale di Savigliano. Le dinamiche di sovraffollamento, che si sovrappongono all’attività routinaria in un pronto soccorso Dea che ha di nuovo superato i 40mila passaggi nel 2022, richiedevano un intervento organizzativo per affrontare alcune evidenti difficoltà. «L’organico della Struttura – spiega Mario Raviolo, direttore del dipartimento Emergenza Urgenza dell’Asl Cn1 – richiederebbe 12 medici oltre al responsabile, invece oggi ne abbiamo quattro, per il resto facciamo affidamento a cooperative, per garantire i turni, con due medici la notte e tre di giorno. Già dopo i primi tempi con l’infermiere supervisore si vedono miglioramenti, nel monitoraggio dei pazienti in attesa, di quelli visitati ma che non hanno ancora completato il percorso, in fase di dimissione o di ricovero». Anna Basso, direttore delle Professioni Sanitarie, insieme con la coordinatrice del Dipartimento, Cinzia Pasquini, spiega: «Il “nurse supervisor” ha la funzione di monitorare l’attività rispetto ai pazienti in carico e di fluidificare i percorsi, migliorando l’interfaccia con l’utenza e i parenti, anche per il percepito dell’attesa. In questo modo migliorano anche il clima lavorativo e l’appropriatezza e si prevengono errori». In pratica occorre lavorare sulla motivazione del personale e creare nuovi modelli di organizzazione. L’azienda ha messo in piedi anche altre azioni, come l’aumento dei posti letto in Osservazione Breve Intensiva e nelle Medicine. «A Savigliano – dice il direttore sanitario di Presidio, Giovanni Siciliano – i posti letto in Medicina Interna sono passati da 40 a 54, a Saluzzo da 24 a 30. Resta la difficoltà di dimissione, spesso per carenza di una rete di supporto sia per il rientro del paziente a domicilio sia per il ricovero in altre strutture. Consideriamo che a Savigliano, ospedale spoke quindi plurispecialistico, affluiscono i casi più complessi, assieme ai numerosi codici verdi, ma a tutti occorre dare una risposta adeguata». Soddisfatta di questa prima fase del progetto Sonia Zoanetti, direttore sostituto della Struttura di Medicina d’Urgenza: «Possiamo già toccare con mano qualche miglioramento, grazie all’agevolazione dei percorsi del paziente. Soprattutto gli aspetti di comunicazione e di relazione con utente e parenti sono importanti». Erano presenti alla conferenza anche la coordinatrice della Struttura, Chiara Grisotto, e un’infermiera supervisor di turno, Daniela Pagliero.