«Il palcoscenico è il posto giusto dove voglio stare»

Lucia Lavia è figlia di Gabriele e di Monica Guerritore: «I miei ricordi dietro le quinte»

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La ricordo in una sce­na di “Vita di Gali­leo” di Bertolt Bre­cht, nel ruolo di Virginia, la giovane figlia del­lo scienziato, intenta a ricamare insieme alla governante, entrambe vicine, in uno spaccato di vita domestica. È proprio un flash precisissimo, in cui Lucia Lavia volta il capo a tre quarti e alza il mento di poco. Era il ritratto di sua ma­dre, Monica Guerritore, fisico asciutto e flessuoso, volto in­tenso e perfetto, timbrica cal­da e avvolgente. Lo spettacolo era diretto da Gabriele, suo padre, anche nel ruolo del ti­tolo. Gabriele Lavia, il suo primo maestro. Colui che più di una volta mi si è parato davanti, attraverso di lei, in­terprete del doppio pirandelliano “Come tu mi vuoi”, in tournée in questi mesi. Qui Lucia è diretta da Luca De Fu­sco e lo spettacolo tutto ruota intorno al suo personaggio: complesso, enigmatico, dalla doppia identità. Con il padre non lavora da circa otto anni eppure il suo imprinting sgomita come non mai attraverso una gestualità a tratti espressionistica, gestita be­nis­simo, contrappuntata dai toni di voce che non risparmiano i risvolti ilari di una situazione che molto ha di sur­reale.

Lucia, tanti complimenti, per tutto: finali comprese (intendo le ultime lettere di ogni parola, quelle che alcuni attori rimettono all’intuito e alla perspicacia dello spettatore, ndr).
«Ci tengo tanto. La tecnica è importantissima. La prima co­sa è far capire al pubblico quel­lo che diciamo. Il teatro è un lavoro faticoso e non solo per gli attori. Anche al pubblico si chiede concentrazione, fisica e intellettuale e gli dobbiamo rispetto».

Ha avuto una gran bella scuola.
«Sono cresciuta tra palcoscenici e camerini, il mio è un percorso extra-ordinario nel senso che entrambi i miei ge­nitori sono attori di teatro classico. Io già a sei, sette anni sentivo che il teatro era il luogo dove volevo stare. Ho ricordi fantastici di spettacoli seguiti “dietro le quinte”, se­duta su una sediolina. Credo che ognuno di noi nasca con un daimon e la mia grande fortuna è stata avere in me il moto interiore e la passione dei miei genitori e riconoscermi in quella. Luca Ronconi mi disse: “il palcoscenico è il tuo territorio”».

Già, Luca Ronconi, un incontro molto importante nella sua carriera.
«Ronconi è stato un maestro incredibile nell’analisi del testo, il suo insegnamento non passava dal canale sentimentale ma analitico. Con me era affettuoso, gentile, non mi lego alla schiera di chi dice che avesse un brutto carattere. Anche se non mi permetto di considerarmi “sua” attrice, innanzitutto per rispetto degli attori che con lui hanno lavorato molto di più».

Però ha frequentato il laboratorio di Santa Cristina e poi lui l’ha voluta nella “Celestina” di Rojas.
«Uno spettacolo immenso, il palcoscenico del Teatro Stre­h­ler di Milano era stato appositamente ricostruito, la scenografia saliva dal sottopalco con le carrucole».

Anche “Vita di Galileo” è stato uno spettacolo grandioso.
«Ventisei attori per ottanta personaggi. Uno spettacolo che porto nel cuore per la grandiosità del progetto. Im­magino che anche per il pubblico sia stato un grande regalo».

Era la quarta volta che veniva diretta da suo padre, prima di intraprendere un percorso completamente autonomo. Non le ha mai creato imbarazzo?
«No, perché in teatro l’unica cosa importante è lo spettacolo. Conta l’andare in scena, non il rapporto padre-figlio. Lui poi è maestro con tutti, snocciola un insegnamento dietro l’altro».

È venuto a vederla in questo Pirandello?
«Non ancora, è venuta mam­ma».

E cosa le ha detto?
«Che non aveva niente da dirmi se non che …».

Che è stata bravissima.
«Ecco. Era felice. E anch’io lo sono, mi fa piacere condividere con loro i momenti belli del mio percorso».

È la prima volta che viene diretta da Luca De Fusco?
«Sì, mi ha proposto questo ruolo un anno fa e ho subito accettato con entusiasmo. È uno spettacolo difficile, con un primo atto ebbro, sopra le righe e con le musiche che trascinano i personaggi, un se­condo che procede secondo dinamiche più realistiche e un terzo in cui la soluzione sembra quasi arrivare da un deus ex machina che parla dall’alto. La difficoltà è data dall’enorme mole di parole ma anche dal dover rivolgermi agli altri personaggi guardando però dei punti fermi a terra».

Aveva già affrontato Piran­dello con “Tutto per bene” e “I sei personaggi”, dove interpretava la figliastra, diretta da suo padre. Come ci si avvicina a un monumento?
«Con il massimo impegno e rispetto. Pirandello ha inventato una lingua e io sento una forte responsabilità. Non posso sentir dire che il testo è un pretesto. Io credo anzi che sia l’unico vero motivo per cui portiamo in scena una cosa. Noi siamo dei mezzi attraverso cui parlano i grandi autori».

Il personaggio dell’Ignota, scritto per Marta Abba, è stato interpretato al cinema da Greta Garbo. Lo ha visto il film?
«Sì ma dopo il nostro debutto. Ho preferito seguire la mia linea senza rischiare di essere influenzata. Sa, come le Sirene di Ulisse, ci sono suggestioni irresistibili».

A proposito di influenze, c’è un personaggio letterario che sia lei sia sua madre avete portato in scena: “Madame Bovary” di Gustave Flaubert: Monica diretta da Giancarlo Sepe, lei da Andrea Baracco. Come ha vissuto il confronto?
«Non c’è stato un confronto perché erano due lavori completamente diversi ed entrambi hanno avuto un gran successo. Quello di Sepe è stato uno degli spettacoli più belli in cui ho visto recitare mia madre, l’avrò visto duecento volte. C’era molta danza, la suggestione dell’acqua. Il nostro è stato invece un adattamento scritto in senso stretto. E dopo una prima sconfortante, a platea quasi vuota, è stato sold out nel giro di pochi giorni, grazie al passaparola».

Le piacerebbe fare cinema?
«Molto. Mi piacerebbe cimentarmi con codici di recitazione diversi, ma in Italia purtroppo la recitazione è ancora troppo settoriale. In Inghil­terra, per esempio, gli attori fanno teatro, cinema poi passano alla stand up comedy, noi siamo molto più indietro».

Sulle dita di una mano, i registi con cui vorrebbe lavorare?
«Adoro Matteo Garrone, Paolo Virzì, Gianni Amelio. E Sergio Castellitto, Michele Placido».

Messa spalle al muro, cinema o teatro?
«Il teatro è la mia vita».

Il ruolo più singolare mai interpretato?
«Dioniso, al Teatro Greco di Siracusa. Un ruolo che ho studiato in modo ossessivo, ho amato lavorare sull’assenza di sesso. Perché Dioniso è il Dio dalle molte forme, né maschio né femmina, ora serpente, ora toro, ora bambino giocoso, dispettoso, cattivello: siccome non viene riconosciuto come figlio di Zeus, ne combina di tutti i colori».

A cura di Alessandra Bernocco