Lucio lo scorso 5 marzo avrebbe compiuto 80 anni. E ne sono trascorsi quasi venticinque dalla sua morte, avvenuta il 9 settembre del 1998. Un’eternità, ammesso che si possa legare a un concetto terreno l’arte in generale e quella di un musicista in particolare. Che quando supera la media diventa senza tempo. Battisti però aveva scelto di uscire di scena molto prima, già nel 1970 aveva infatti deciso di non fare più concerti. E poi nel 1972 aveva spento la tv, nel senso che il suo duetto con Mina (anche lei poi avrebbe spento le luci della ribalta) di quell’anno – una grande performance televisiva che ogni tanto riapprezziamo in bianco e nero – è rimasto l’ultima testimonianza visiva di un autore tanto complesso quanto straordinario.
La sua fuga dal successo e dalla popolarità, figlia di un carattere schivo e originale, portò alla separazione artistica con Mogol per scegliere la sperimentazione elettronica e i testi di Pasquale Panella. Fu un percorso di pura avanguardia, un cambiamento netto che vide anche uno scambio di ruoli negli ultimi anni: Battisti paroliere e Panella musicista. Difficile per il grande pubblico, ma anche per la critica, comprendere quella fase. Del resto, anche l’acclamazione del primo Battisti è arrivata in ritardo. Non si apprezzò subito la grandezza del suo lavoro. E lui faceva poco per ingraziarsi le simpatie dell’ambiente. Quando morì prematuramente per una malattia che ancora oggi non è stata comunicata, il suo allontanamento volontario dalla scena musicale avea assunto contorni aspri, ulteriormente definiti dalla questione dei diritti dei 12 album più amati e conosciuti della carriera di Battisti, quelli incisi con i testi di Mogol, detenuti dalla vedova Grazia Letizia Veronese (con il figlio Luca) che dopo la scomparsa di Lucio vietò la diffusione della musica del marito se non per vinili e cd, ma con divieto di sfruttamento per pubblicità, colonne sonore, omaggi, perfino festival. Ancora più dura è stata poi la battaglia contro le piattaforme di streaming, risolta solo qualche anno fa quando finalmente anche su Spotify abbiamo ritrovato le canzoni di Battisti.
Un documentario attualmente disponibile su Netflix racconta la vita musicale di Battisti e aiuta soprattutto ad entrare nella visione dell’artista, nei suoi sentimenti. Lo riavvicina insomma, gli dona una dimensione umana che le vicende legate ai diritti e anche allo scontro con Mogol, avevano in qualche modo offuscato. Nelle parole e nei sentimenti di chi lo ha conosciuto, collaborando anche con lui come ad esempio Mario Lavezzi, si trovano spunti preziosi per ricostruire la personalità di un genio. Un po’ tutti i personaggi che lo ricordano (da Finardi a Bennato) sottolineano i tratti delle canzoni di Battisti, profondamente italiane certo, ma al tempo stesso internazionali nella concezione musicale ispirata certamente al blues e al rock di quel periodo. Musica di ampio respiro. Note e dettagli di efficacia rara. La forza più evidente risulta essere l’attualità di quelle canzoni. Sono senza tempo, come sempre quando parliamo di capolavori. Esattamente come nel caso di Dalla, anche se percorrendo strade divergenti. Ma fino a un certo punto.
Battisti, l’arte nascosta del genio rivalutato
L’ultimo show televisivo con Mina prima di spegnere le luci della notorietà. Ma oggi tutti lo applaudono