«Caro amico ti scrivo perché le langhe sono il mio approdo»

«Per me è un luogo nelle cui pieghe si scompare, affascinati dalla sua abbondanza, dai racconti e dalle tentazioni. Ma intanto il cambiamento climatico ha un impatto sempre crescente»

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«Dear Bruno, percorrere le strette e meravigliose strade di Langa, sfiorando le creste di innumerevoli colline mentre la nebbia e il freddo di un mattino d’autunno si dissolvono. Questo è il ricordo che rimane ancora impresso a distanza di settimane dal ritorno a casa, dopo aver trascorso ogni anno in Langa, un mese o poco più. Ogni volta le stesse sensazioni. I tesori di questa terra si mettono a fuoco meglio al mattino. Restituisce tonicità osservare i primi attimi di luce all’alba. Il raccolto è quasi finito, le foglie di tiglio brillano al sorgere del sole. Poco dopo, queste terre sono un’estasiante tessitura di lana filata grossolanamente, un misto di marroni fulvi, di arancioni umbri e di marroni mogano. C’è la quiete di una pausa tra i movimenti di una sonata. C’è il realismo magico della natura».
«I rituali di un lontano passato si svolgono, invece, mentre il giorno tramonta e l’ansia di terre selvagge e insieme coltivate pulsa fino a quando il crepuscolo costringe a ritirarsi in casa, nei focolari e poi nei letti, dove sogniamo, sfiorati da quella magia che nel sonno pare strizzarci l’occhio. Così come fa la nebbia che in Langa appare per poi ritirarsi e dopo ancora ritornare, ugualmente gli amici mi dicono che è necessario lasciare le Langhe per poi poterci tornare e rinascere, risvegliarsi arricchiti di nuove intuizioni. Questa è in fondo la promessa ne “La Luna e i Falò” di Cesare Pavese: un uomo si ristabilisce nel suo paese natale, Santo Stefano Belbo, dopo la seconda guerra mondiale, ritorna, quell’uomo, nel luogo che aveva lasciato venticinque anni prima per andare in cerca di fortuna negli Stati Uniti. Con il passare del tempo, tutte le cose cambiano, nulla rimane come prima, a volte cambiano in bene, altre volte no. Ma il senso di appartenenza ai luoghi della sua giovinezza pervade quell’uomo e lo riempie. Il viaggio dell’eroe termina con il suo ritorno in Piemonte. È così che il suo destino si compie. Così come gli scrittori lottano per sfuggire ai confini del linguaggio, così l’uomo giovane cerca di liberarsi dall’attrazione della propria terra per trovare nuova ispirazione altrove. Italo Calvino scriveva: “Il luogo ideale per me è quello in cui è più naturale vivere da straniero”. Le Langhe, per me, sono quel luogo. Un luogo che conforta. Un luogo nelle pieghe del quale si scompare affascinati dalle sue peculiarità, dai suoi retaggi, dalla sua abbondanza, dai suoi racconti, dalle sue tentazioni».
«I misteri si confondono. Le colline, come mostri di Loch Ness, si aggirano su un lago sovrastato da una nebbia fitta. Per ragioni che ancora non comprendiamo, in Langa crescono i tartufi bianchi. I vini prodotti in porzioni di terra a pochi passi l’una dall’altra possono essere anche profondamente diversi, come un Chianti da un Barolo. Vediamo conchiglie tagliare strati di tufo su scarpate lungo la strada e ci chiediamo: “Com’è possibile?”. Vagando per i boschi viene voglia di cercare il palazzo incantato per liberare la principessa vittima di una maga gelosa. La spavalderia dei cinghiali che cercano cibo – con il loro gracchiare, stridere o grugnire – ti mette in fuga, alla ricerca di un riparo».
«In Langa, come in qualsiasi altra parte d’Italia, l’individualismo è forte. Ci sono tanti modi di preparare i tajarin quanti sono gli chef. Alcuni insistono su 40 tuorli d’uovo per chilo; altri dicono che ne bastano pochi. Alcuni rosolano il riso prima di aggiungere il brodo per ottenere un risotto. Altri non lo fanno. Sono le tradizioni tramandate da generazioni ad informare le mani che impastano. Que­stioni gravi fanno insorgere dubbi ed incertezze. Il cambiamento climatico ha un impatto crescente. I giorni sono sempre più caldi e secchi. Si trovano sempre meno tartufi e si dice che quelli trovati siano più secchi, più piccoli e meno ricchi degli aromi inebrianti che avevano quelli di una decina di anni fa. La siccità e le temperature estreme costringono i viticoltori a modificare la potatura e ad affrettare la vendemmia per timore che il raccolto venga distrutto da un clima bizzarro o che gli zuccheri aumentino a tal punto che il vino abbia livelli di alcol eccessivi. E si teme che la produzioni diminuirà. Le piogge torrenziali allagano le città e causano valanghe. Le conseguenze negative sono strazianti».

James Spellman