«Molly, la napoletana che conquista il nord»

0
1

Così affondata nel ta­lamo, le luci calde e le lenzuola rosate, sem­bra anche lei an­cora più rosea. Iaia Forte è una Molly sensuale dai riccioli chiari, accogliente e selvatica come lo è questa donna, nata dai pensieri fluttuanti di James Joyce. Pensieri che trovano sfogo nelle notti di veglia, come suggerisce la rilettura firmata da Ruggero Guarini, in dialetto napoletano, di questo personaggio chiave dell’Ulisse. Molly B., ovvero il corpo pensante, la carne, i colori e gli odori, gli umori. E allora quale miglior ventre per ospitare la sua vitalità multiforme, as­setata, eversiva, se non Napoli, con quella lingua che è una festa di suoni, emotività pura, è flusso, appunto, fiotto di sangue che si coagula in amplessi di anime e corpi?

Iaia, dare voce a Molly è stata sicuramente una sfida, come sempre lo è mettere in scena la letteratura, ma in questo caso sembra che il napoletano si offra all’operazione in modo perfetto.
«Infatti, il testo di Ruggero Gua­rini è meraviglioso e per un attore partire da un testo così potente è sempre un vantaggio. Il napoletano ha una sonorità che rende bene la musicalità della lingua joyceiana. Carlo Cecchi, il regista, ha affidato la “traduzione” a Guarini dopo avere ascoltato un disco di un’attrice irlandese che recitava Molly, con la consapevolezza che l’italiano non sarebbe stato giusto e l’utilizzo di fonemi più musicali, tipici del napoletano, era da preferire».

Veniamo dunque alla regia di Carlo Cecchi.
«Ha avuto l’intuizione di collocare Molly in un letto, che dà immediatamente un senso di concretezza, anche se per tradizione Molly è sempre stata in­terpretata in piedi. Cecchi ha vo­luto fare un’operazione più vicina alla performance che al mo­nologo, in modo che il pubblico potesse partecipare in ma­niera quasi voyeuristica, spiandola di na­scosto, guardando le pa­role attraverso le immagini evocate, attraverso visioni, come succede quando la parola è così ancorata all’immaginazione».

Qual è stata la difficoltà maggiore per lei?
«Il lavoro più complesso è stato cercare di raggiungere uno sta­to di grande rilassatezza e, contemporaneamente, lavorare sul­­la tenuta del corpo, sull’essere qui e ora, non ripetere un compito vuoto e stanco ma at­traversare ogni volta la situazione, che significa anche attraversare un territorio psichico, un territorio che ci riguarda o no, ma che celebra la donna nella sua forma più sublime, senza edulcorazione del femminile ma inglobando l’al­to e il bas­so, le contraddizioni, i silenzi».

Ormai è uno spettacolo che ha in repertorio, che ha girato l’Italia da nord a sud ed è stato anche all’estero. Im­magino che in occasione del centenario della pubblicazione del­l’Ulisse, avvenuta a Pa­rigi nel 1922, ci siano state ri­prese mirate e molte siano an­cora in programma. Come viene ac­colto lo spettacolo al nord?
«È sempre stato accolto con favore, abbiamo ricevuto critiche molto belle e nonostante il dialetto, il testo è comprensibile e arriva. In ogni caso non è necessario capire proprio tutto, è un flusso emotivo e la lingua più stretta ti invita a fruire della musicalità del verso. D’altra parte, la musica stessa non è decodificabile».

Da una performance monologante all’altra: come si è av­vicinata a Tony Pagoda, il pro­tagonista del romanzo di Paolo Sorrentino “Hanno tutti ragione”, un cantante neomelodico dalle vicende rocambolesche, un seduttore in disarmo che non farà una fine felice?
«Come attrice sono attratta dalla possibilità di percorrere strade non convenzionali. Quando Sorrentino mi propose il ruolo capii subito che Tony Pagoda era il personaggio che avrei voluto interpretare. Ho cercato un corpo che fosse credibile oltre la vocalità e mi sono divertita moltissimo perché come donna ero libera da cliché e ho potuto giocarci, prendere per i fondelli certi cliché ma­schili».

Nessuna tentazione mimetica?
«Ho avuto il privilegio di incontrare i più grandi maestri e da tutti ho capito che il teatro non è territorio naturalistico ma di im­maginazione e regala agli at­tori questa grande possibilità e io, co­me attrice, la voglio usare tutta».

Si sente attratta da personaggi borderline?
«Mi sento attratta dai personaggi vitali ma con in sé qualcosa di disperato e tragico, personaggi con una loro umana contraddittorietà».

Si sente più romana o napoletana?
«Ho cominciato a Napoli con Teatri Uniti (compagnia fondata nel 1987 da Mario Martone, Toni Servillo e Antonio Nei­wil­ler ndr) che mi ha formato e determinato. E anche se vivo a Roma da tanti anni, Napoli re­sta per me sempre una fonte, una città che nonostante i cambiamenti mantiene un’identità molto forte, anche per la lingua. L’italiano è lingua matrigna, non materna. E per un at­tore il dialetto è una possibilità in più, un riferimento prezioso».

Ha lavorato con registi autorevoli, ognuno con una cifra molto definita. Penso a Mario Martone, Carlo Cecchi, Luca Ronconi.
«Tante volte con Cecchi e Martone ed è sempre un piacere tornare a lavorare con loro, incontrarsi di nuovo e conoscersi ulteriormente. Ci sono codici ormai acquisiti che favoriscono il lavoro di tutti. Quello con Ronconi è stato un incontro folgorante, la sua è una visione del teatro così potente che ha cambiato in me certi sguardi, mi ha aperto prospettive nuove».

Come spettatrice cosa guarda?
«Sono curiosa ma non guardo tutto. Seleziono. Ho visto da po­co “Il soccombente” di Tho­mas Bernhard diretto da Fede­rico Tiezzi, con Sandro Lom­bardi, un attore che adoro».

E come lettrice su cosa si orienta?
«Sono una lettrice assatanata ma ai contemporanei preferisco i classici».

L’Ulisse?
«L’ho letto due volte, la seconda per lavoro».

Ha appena debuttato al Teatro Off Off di Roma con “Scrivi sempre a mezzanotte”, uno spettacolo dedicato a Virginia Woolf, assieme ad Annalisa Canfora. Di cosa si tratta esattamente?
«È uno spettacolo sul carteggio tra Virginia e Vita Sackville-West, importante non solo perché dà voce al pensiero e alla scrittura di due donne eccezionali ma perché restituisce l’atmosfera di Bloomsbury, libera e lontana dal conformismo e dall’omologazione, portatrice di va­lori che oggi sembrano dissolti».

Che rapporto ha con il tempo che passa?
«Molto sereno e tranquillo, sto meglio adesso di quando ero giovane».

Beh non è che sia vecchia. Come si mantiene in forma?
«Con un po’ di yoga ma sono piuttosto pigra».

Le piacciono le città del nord?
«Sì, e amo molto Torino, dove ho lavorato spesso. Un bellissimo ricordo è di qualche anno fa, al Teatro Carignano, con “Car­men” di Enzo Moscato, con l’adattamento e la regia di Mario Martone e la direzione musicale di Mario Tronco».

Articolo a cura di Alessandra Bernocco