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maddalena crippa «a teatro sviluppiamo la dimensione umana»

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«Non c’è fine al mio stupore, al mio tacerlo / Ascolta / come mi batte forte il tuo cuore». Termina così, con gli ultimi versi di una poesia celeberrima di Wislawa Szymborska, il recital a lei dedicato nel centenario della na­scita, grazie a una più che ideale unione Italia Polonia. L’idea è di Sergio Maifredi, regista e direttore artistico del Tea­tro Pubblico Ligure, e in scena c’è Maddalena Crippa che, in­sieme ad Andrea Nicolini, nel doppio ruolo del segretario particolare e di Kornel Filipowicz, lo scrittore e poeta che della Szymborska fu compagno di una vita , dà voce a questo recital titolato “Ascolta come mi batte forte il tuo cuore. Poe­sie, lettere e altre cianfrusaglie”, che ha debuttato in prima na­zionale al Teatro Vittoria di Ro­ma il 27 marzo e che sarà a Ge­nova il 17 giugno per il Fe­stival Internazionale di poesia e a Fiesole per l’Estate fiesolana il 9 settembre. Interprete eletta della miglior prosa, Mad­dalena Crippa è una di quelle at­trici che mi piace definire ad angolo giro, cioè che in teatro non si sono fatte mancare nulla ma proprio nulla. Tragici greci, Shakespeare, Goldoni, Mariva­ux, Heinrich von Kleist, Bre­cht, Ibsen, Pinter, Dostoevskij. Tra gli altri. Frequentatrice del verso e divulgatrice sana di Dan­te, Omero, Virgilio ma an­che di Ariosto e Tasso e di poeti contemporanei come Marian­ge­la Gualtieri e Giovanni Te­stori – ricordiamo “Passione”, spet­tacolo tratto da “Passio La­etitiae et Felicitatis” – a Szym­borska arriva dopo avere letto e amato due raccolte fondamentali: “La gioia di scrivere” e “Di­scorso all’ufficio oggetti smarriti”.

Pare che la Szymborska so­stenesse che le sue poesie non avessero bisogno di interpretazione. Come l’ha affrontata alla luce di questa consegna?
«Io mi sono formata alla scuola di Peter (il regista Peter Stein che è anche suo marito) che è rispettosissima della scrittura. Bisogna innanzitutto capire che cosa il poeta ha costruito, assecondare il suo ritmo e tutte le indicazioni che la poesia contiene: la punteggiatura, quando andare a capo. Le va­riazioni non devono essere fini a se stesse, ma funzionali ai diversi temi presenti, le marce te le suggerisce l’autore».

Chiudi la bocca e apri le orecchie: è vero che è questa la sintesi del suo insegnamento?
«È vero. Prima analizza il testo e solo dopo, una volta capito e assimilato, puoi farlo tuo, puoi aprire il cuore e dargli voce, per condividerlo».

La condivisione: lo scatto che lega attore e pubblico. La differenza tra la parola silenziosa e la parola detta o ascoltata.
«La parola se ben detta ha il potere di risvegliarti perché chiama in causa la tua immaginazione e di conseguenza quella di chi ascolta».

Oggi il teatro di parola non go­de di ottima salute, esposto a intemperanze e strumentalizzazioni.
«È per questo va difeso e coltivato, a maggior ragione perché è estremamente minacciato. Io sento di dover spezzare una lancia per il rispetto dei classici: non credo sia giusto usarli per farne quel che si vuole, per fare una novità a tutti i costi. Se vuoi fare qualcosa di nuovo, scrivi un testo nuovo ma le continue rielaborazioni sono sbagliate».

Prima dell’incontro con Peter Stein, determinante nella sua carriera, ha lavorato con registi autorevoli come Giorgio Stre­hler, Luca Ronconi, Massi­mo Castri, Giancarlo Cobelli. Do­vesse definire se stessa in rapporto al mestiere cosa direbbe?
«Sono un cane sciolto. Il mio non è un percorso lineare, ho fatto anche molto teatro musicale, il teatro canzone di Giorgio Gaber, un artista unico, inimitabile ma la cui riflessione funziona molto bene anche al di là di Gaber. E ancora “Italia mia Italia”, un percorso nella nostra storia e nelle nostre radici attraverso liriche classiche e canzoni contemporanee, da Leopardi a Fossati, Battiato, De André, De Gregori».

Un viaggio in Italia con la regia di Peter Stein e lei unica interprete.
«Non unica perché c’erano le musiche suonate dal vivo, pianoforte, archi, chitarra. Con Pe­ter ho acquisito una responsabilità diversa dello stare in scena, sempre nel segno dell’ensemble. E ho affinato i miei mezzi espressivi, che sono fisici, intellettuali e umani. Il teatro è il luogo in cui sviluppare la nostra dimensione umana».

Insegnamento, questo, che le arriva anche dal suo primo maestro, Giorgio Strehler. Co­me ricorda il vostro incontro?
«Ero giovanissima, arrivavo dalla Brianza e mi presentai al provino per fare Anja ne “Il giardino dei ciliegi” di Cechov. Non mi prese ma mi notò. L’anno dopo mi arrivò una telefonata dal Piccolo Teatro e poi…».

E poi fu la consacrazione: Lu­cietta ne “Il campiello”, 450 repliche e tournée in tutto il mondo.
«Fu l’imprimatur. Con Strehler ho capito che questo lavoro si deve fare al massimo livello possibile. Era un perfezionista assoluto. E “Il campiello” è una grande sinfonia, un lavoro corale in cui lui, direttore d’orchestra, aveva la capacità di far risuonare tutte le voci».
Eppure soprattutto in questi ultimi tempi il monologo sta prendendo sempre più piede.
«Sì, ma io continuo a credere che il teatro sia innanzitutto relazione, un congegno che richiede un lavoro artigiano e collettivo».

Come “I Demòni” di Do­stoevskij, una maratona di dodici ore e ventotto attori o “Il compleanno di Pinter”, grande spettacolo anche questo, ancora in corso, entrambi firmati Stein.
«Un viaggio pazzesco, “I Demòni”, per noi e per il pubblico, una vera e propria condivisione. “Il compleanno”? Venitelo a vedere».

Mi dica tre qualità che deve possedere l’attore.
«Pensiero, sentimento e viscere. Io ho un buon istinto e cerco di unire queste tre dimensioni, ma mi sento uno strumento all’interno di un’orchestra e devo imparare a suonarlo al meglio. La cosa importante è arrivare là e là c’è il testo e c’è l’autore che attraverso di noi devono arrivare a voi».

Chi è il buon critico, ammesso che esista?
«Chi racconta cosa fanno gli attori, come recitano, cosa succede in scena. Lasciate perdere la trama».

 

Articolo a cura di Alessandra Bernocco

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