Sport e buona alimentazione: un binomio fondamentale che diventa un’occasione per riflettere e per sensibilizzare anche i più giovani, anche grazie al passaggio del Giro d’Italia. Sul tema, sempre attuale, è stato, infatti, organizzato un convegno nelle scorse settimane dall’Università degli Studi di Scienze Gastronomiche e il vicepresidente dell’ateneo Silvio Barbero vorrebbe sviluppare dei progetti che coinvolgano gli sportivi e il territorio in maniera capillare. La parola d’ordine è consapevolezza.
Il Giro d’Italia è una cassa di risonanza non solo come evento sportivo.
«Credo che lo sport abbia un ruolo molto importante nella valorizzazione della consapevolezza alimentare, soprattutto verso le giovani generazioni e aggiungo che le grandi manifestazioni sportive sono anche un luogo di cultura alimentare e consapevolezza. L’occasione del passaggio del Giro d’Italia da Bra ci ha fornito l’opportunità di riflettere sul valore che una sana alimentazione può avere nello sviluppo e nella pratica dell’attività sportiva, a tutti i livelli e nella sua dimensione più estesa. Su questi temi abbiamo sviluppato da anni un approccio formativo che pone l’educazione alimentare quale elemento centrale della promozione di una sana e corretta attività sportiva, sia a livello amatoriale che agonistico».
Crede che ci siano delle pratiche alimentari sbagliate?
«Penso innanzitutto che l’importanza di una sana alimentazione sia sottovalutata e a volte il tema sia gestito in maniera impropria nell’attività sportiva, a tutti i livelli. È una prassi comune, ormai, per esempio, usare gli integratori al posto del cibo. E bisogna ricordare che un prodotto di qualità contiene dei principi attivi, difficilmente trovabili altrove e non così facilmente sostituibili. Questo non vuol dire che non debbano esistere diete specifiche, cucite su misura a seconda del dispendio energetico dell’atleta, ma manca un’adeguata educazione alimentare e si ritorna al tema della consapevolezza. È un argomento su cui sicuramente vale la pena di investire».
Cosa si può fare in ambito sportivo?
«Deve essere un discorso che riguarda tutte le realtà. Lo sport può dialogare con l’agricoltura, bisogna tornare a pratiche naturali, con poca chimica, ma bisogna anche sensibilizzare le persone a sviluppare una cultura del cibo. Lo sport deve essere uno strumento, ma tutte le componenti in gioco possono sostenersi, dialogare e impegnarsi anche a fare dei progetti ambiziosi».
Da dove bisogna partire?
«Sensibilizzare le persone sull’importanza di informarsi, a partire dalla provenienza dei cibi, le metodologie con cui vengono prodotti e trasformati, perché lì sta l’elemento centrale attorno al quale si può ricostruire una cultura gastronomica: la conoscenza delle materie prime. Credo che sia fondamentale andare a fondo e riscoprire il rapporto tra cibo e terra, fra cibo e agricoltura e dentro questo legame contemplare la possibilità di avere un rapporto diverso con i cibi di qualità. Perché la qualità dei prodotti e la salute sono due argomenti centrali, tra loro strettamente correlati».
Si tratta soprattutto di fare formazione.
«Certo, partendo da una constatazione molto importante. Gli allenatori hanno oggi un potere di persuasione nei confronti dei giovani che è maggiore di quello dei genitori, devono essere consci del loro ruolo di formatori. Bisogna che capiscano il valore dell’educazione alimentare ed è necessario che compiano un percorso formativo indirizzato non solo alla prestazione, ma soprattutto alla preparazione. Si potrebbero pensare a vere e proprie scuole con tanti attori coinvolti, tra associazioni e istituzioni. E noi, come Università di Scienze Gastronomiche, siamo disposti a mettere a disposizione le nostre professionalità e la nostra esperienza sul campo».
Ha in mente già dei progetti concreti?
«Abbiamo sfruttato la grande possibilità che ci ha fornito il Giro d’Italia per parlare con gli organizzatori di Rcs. Sono sembrati molto sensibili all’idea di creare un percorso di sensibilizzazione all’educazione alimentare. Magari un progetto itinerante che possa fare formazione anche nelle squadre giovanili, trovando tanti alleati nei vari territori. È un discorso appena accennato, ma che può portare a interessanti sviluppi futuri».
Quali rischi vede tra gli sportivi?
«Non sono un esperto o un nutrizionista, ma noto che ci sono delle abitudini alimentari sbagliate. Spesso si assiste a un consumo eccessivo di zuccheri, non si differenziano le proteine, per esempio, si usano solo quelle animali, ma l’errore sta a monte. Si crea un modello alimentare che non è equilibrato, una sorta di modello a scaletta che provoca un saliscendi dannoso per la prestazione sportiva. Spesso si adotta un modello virtuoso di alimentazione solo per un periodo limitato di tempo, in prossimità dello sforzo o della prestazione, invece di fare un discorso a media-lunga scadenza, sicuramente più benefico e portatore di risultati».
Articolo a cura di Daniele Vaira