«L’onesto fantasma ricordo di un amico che torna a teatro»

Il drammaturgo Edoardo Erba e il suo nuovo spettacolo: «Pensando anche a Shakespeare»

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«Se mi richiama tra dieci mi­nu­ti ho il tem­po di ap­partarmi e siamo più tranquilli». Si trovava sugli spalti di un campo da calcio e di lì a poco suo figlio Robel avrebbe iniziato a giocare. Cuore di padre. Robel è il terzo figlio di Edo­ardo Erba e Maria Amelia Monti, 15 anni, origine etiope, adottato quando ne aveva quattro. Unico in casa, perché i primi due, femmina e maschio, 27 e 23, vivono e lavorano a Los Angeles. Erba è uno dei drammaturghi italiani più quotati, prolifici e tradotti. Basti pensare che “Ma­ratona di New York”, del ’92, è stato tradotto in quattordici lingue, pubblicato in sei, rappresentato in tutto il mondo, ma davvero. Da Roma a Sidney a Bombay a Buenos Aires, passando per Edimburgo, Parigi, Barcellona, Londra, Boston e Tel Aviv. In scena due attori che recitando corrono per tutta la durata dello spettacolo: settantacinque minuti di corsa ininterrotta. Una prova estrema di resistenza e concentrazione. I pri­mi due a inaugurare e tagliare il traguardo, nel ’92, sono stati Luca Zingaretti e Bruno Ar­mando. E a Bruno, amico fraterno che se n’è andato tre anni fa, è dedicato “L’onesto fantasma”, in tournée in questa corrente stagione. Inter­preti Gianmarco Tognazzi, Re­nato Marchetti, Fausto Scia­rappa e un certo Nobru, “l’onesto fantasma”, la cui presenza è così desiderata e la sua assenza così forte e sofferta che irrompe nei sogni e ricompare nei video.

Nobru: evidente anagramma di Bruno.
«Era anche il suo indirizzo mail. Ma non voglio parlare pubblicamente di lui. L’ami­cizia è un sentimento che ri­chiede pudore, come l’amore. E certi testi si scrivono proprio per non dover parlare. Certo, è dedicato a lui, ma è per tutti. Mi fa piacere se chi lo ha conosciuto lo gradisce ma sarei contento se in futuro ve­nisse messo in scena anche da altre compagnie».

Com’è nata l’idea di questo testo?
«Al mare, mi sono reso conto che erano giorni che non lo sentivo. La nostra amicizia correva sul filo del telefono, ci sentivamo tutti i giorni, parlavamo di lavoro ma soprattutto di vita, figli, famiglia, salute, di co­me affrontavamo il mondo in quel preciso momento, commentavamo le notizie legate alla quotidianità. Anche di calcio, dell’Inter, la nostra squadra. Lui era un tifoso accanito, io più tranquillo, ma durante le partite ci mandavamo messaggi».

È giusto dire che sia nato da una mancanza?
«Da un insieme di cose. L’an­tefatto riguarda uno spettacolo che cito anche qui, “Il rompiballe” di Francis Veber, in cui c’era Bruno insieme ai tre attori ora in scena, i quali mi hanno chiesto di scrivere un testo su Bru­no. Io immediatamente ho det­to “no, ma fammici pensare”».

E ci ha pensato?
«No, in genere quando dico “fammici pensare” poi non ci penso affatto. Però ho saputo che Tognazzi aveva detto: “vor­rei portare Bruno in tournée con noi”».

Detto fatto?
«È nata così l’idea del fantasma. E dal fantasma è venuto naturale pensare ad Amleto, il testo di Shakespeare che i tre programmano di mettere in scena».

Il teatro nel teatro. Proprio co­me in Amleto. A un certo punto c’è una battuta, “che pal­le i classici”: arriva da Gallo, il per­sonaggio di Tognazzi, colui a cui gli altri due vorrebbero affidare il ruolo di Amleto. Qual è il suo rapporto con i classici?
«Ottimo. Infatti quella battuta l’ha aggiunta Tognazzi per gio­co. Io amo il teatro anche perché dura nel tempo. I classici so­no presenti in molti miei testi: in “Maurizio IV”, Piran­dello; in “Locandiera B&B”, Goldoni. Shakespeare poi è un discorso a parte: una scrittura talmente alta, la sua, che è fuori classifica».

Ma quindi non se la prende se un attore manipola il suo te­sto a piacere?
«Dipende. In questo caso c’era una tale sintonia tra noi che ho tollerato anche che si potesse uscire dalle battute, privilegiando la spontaneità a un te­sto pulitissimo».

Quanto tempo impiega, mediamente, a “licenziare” un testo?
«Mediamente un mese. Ma c’è un tempo di maturazione in cui non faccio niente, ci penso di notte, la mattina presto. Quando comincio, scrivo di getto ma correggo e rielaboro in continuazione. Non riesco ad andare avanti se non sono pienamene soddisfatto di quello che è già scritto».

In questo caso è sua anche la regia.
«Infatti, la regia è un ulteriore mo­mento di revisione del te­sto».

Spesso scrive per committenza, il che dimostra che sono molti gli attori a fidarsi di lei. Sente una responsabilità mag­giore in questo caso?
«La committenza per me è stimolante, molto più che ca­strante. Soprattutto quando co­nosco bene gli attori, come nel caso di Tognazzi, che è emotivo, logorroico, ma anche affettuoso e generoso. Restituire un personaggio così, cucirglielo addosso, mi ha sicuramente stimolato».

Si sente spesso dire che la dram­maturgia italiana è in crisi.
«Non mi pare proprio. “The Lehman Trilogy” di Stefano Massini lo scorso anno ha vinto il Tony Awards per la migliore opera teatrale. E da quel testo è nata una serie, ma in America. Il nostro limite culturale, anche del nostro cinema, è considerare il teatro il parente povero. Invece il teatro è ricchissimo di talenti, di testi, di attori, ma purtroppo registi e produttori lo snobbano. Pecca­to perché si troverebbero di fronte situazioni già pronte. Come diceva Natalia Ginzburg, non si tratta di essere poveri ma senza soldi. Il teatro non è povero: è senza soldi».

“The Lehman Trilogy” però è un testo atipico, molto narrato, con pochi dialoghi.
«È un testo che stimola i registi a inventarsi una messa in scena. I miei testi contengono in sé la messa in scena e i registi potrebbero sentirsi frustrati».

Che cosa fa di un testo, un testo teatrale? Qual è la condizione necessaria?
«La capacità di rendere vivi i personaggi. Ci sono testi che non sono scritti con dialoghi e battute eppure hanno una forte impronta teatrale».

Nei suoi testi è sempre contenuto un elemento surreale, qualcosa di apparentemente dis-organico che però diventa una maglia fondamentale della tessitura, eliminata la quale, crollerebbe tutto l’edificio. Pen-so per esempio alla Giulia di “Muratori”, personaggio irreale mutuato da Strindberg e non solo. Fino a questo fantasma.
«La condizione necessaria per stimolarmi a scrivere è proprio l’esplorazione del limite tra conscio e inconscio, tra mondo reale e quel che non vediamo e sentiamo. Sono attratto da quello strappo nella realtà, come lo chiamava Montale».

Come se la cava con sua mo­glie, Maria Amelia Monti, protagonista di numerosi suoi te­sti?
«È lei la prima lettrice, una critica severa. Se supero il giudizio del suo tribunale sono quasi salvo».

È vero che ama Pavese?
«La mia tesi di laurea riguardava le concordanze poetiche in “Lavorare stanca”».

A cura di Alessandra Bernocco