«Nell’uomo c’è l’infinito: cambiare si può»

L’attore, regista e scrittore Luigi Lo Cascio sarà il primo ospite delle “Passeggiate letterarie” a Serralunga d’Alba: «Luogo ed evento suggestivi»

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La scrittura – ma il di­scorso vale un po’ per tutti i processi creativi – può presentarsi come una folgorazione capace di trascinare l’uomo verso un senso di pienezza e di gioia assoluto. Ne è ben consapevole Luigi Lo Ca­scio – attore e regista di teatro e cinema, ma anche scrittore, appunto -, che a Serralunga d’Al­­ba, ospite della Fonda­zione Mirafiore (i dettagli nel box a destra), presenterà il suo ultimo libro, “Storielle per granchi e per scorpioni” (Feltrinelli, 2023). Noi della Rivista IDEA lo abbiamo intervistato.

Lo Cascio, il 20 maggio sarà ospite delle “Passeggiate letterarie”. Quali suggestioni le su­sci­ta que­sta rassegna?
«È una cosa nuova per me, tra l’altro non ho voluto nemmeno chiedere troppe informazioni…».

Come mai?
«Voglio mantenermi “im­­pre­pa­rato”. È già suggestivo il luo­go: sono stato ad Al­ba, quindi ho presente il paesaggio e so delle grandi tradizioni che ha dal punto di vista del­l’accoglienza e dell’enoga­stro­­­­­nomia. Mi pia­ce poi il di­scorso della passeggiata lette­ra­ria. Peraltro, il mo­mento del­­­­­­­­­la scrittura arriva spesso co­me un lampo im­provviso, ma­­gari proprio mentre si sta camminando».

Le sta a cuore il passeggiare…
«Molto. Mio padre era marciatore e ce ne ha indicato la bellezza fin da quando eravamo piccoli, per cui mi trovo pronto a viverla con grande intensità. A ciò si ag­giunge un altro aspetto: la passeggiata è un qualcosa che “avviene” assieme agli altri, all’interno di un rapporto con il sa­pere e la natura».

Lei perché scrive?
«Il lettore viene a contatto con l’opera ormai compiuta, ma quan­do comincio a con­ce­pirne le parti non ho chiaro il fatto che possa essere un li­bro. Il mio pro­­cedimento di scrittura “accade” da quando faccio l’attore. In Accademia d’Arte Dram­matica ho iniziato a leggere in modo diverso e l’approfondimento della lettura ha innescato sin da subito il desiderio di scrivere».

Come descriverebbe la sua scrittura?
«Molto personale e solitaria: si manifesta come un’occupazione del pensiero, o un laboratorio privato, quasi fosse un diario. È una forma di esaltazione, che fa vibrare».

Cos’altro prova scrivendo?
«Le preoccupazioni si allontanano e ci si sente immersi con un’intensità tale per cui quello che ci è intorno po­tremmo quasi paragonarlo alla gioia, con tutto il positivo che può ve­nirne fuori in termini di cura».

E così prende consapevolezza di ciò che sta creando…
«Quando intravedo che questa scrittura personale, quasi involontaria, può diventare interessante anche per gli altri, allora inizio a immaginare il libro. Ed è solo a quel punto che vado verso un procedimento più strutturato».

Il suo ultimo libro come si è originato?
«Le prime storielle sono nate durante il lockdown. Molte de­­rivano dalla sensazione di nostalgia che avevo del mon­do. Stando “dentro”, è come se questo mondo venisse un po’ sognato e un po’ immaginato. Que­sta nostalgia riguardava non solo gli uomini e le loro abitudini, ma anche le piante o gli animali. Uscendo fuori, poi, si è aggiunto il piacere della riscoperta».

Le storie di cosa parlano?
«Sono quasi tutte legate a un evento particolare di quel pe­riodo. Alcune sono connesse al Covid; un’altra è nata du­rante la lettura di alcuni canti di Leo­pardi. A casa sua, a Re­canati, leggendo il “Canto notturno di un pastore errante del­l’Asia”, ho immaginato questa scena: un pastore si accorge che la sua capra compone delle poesie dedicate alla luna, si innamora della sua fantasia poetica ma poi teme che l’animale possa scappare verso la luna. Quasi tutte le storielle hanno un elemento a volte paradossale, a vol­te fiabesco. Non si preoccupano di avere un rapporto troppo ferreo con il principio di realtà: l’immaginazione non si preclude la possibilità di spaziare verso cose che inizialmente possono sembrare assurde o impossibili».

Nella sinossi si legge: “Abbia­mo intorno un mondo per salvarci, ma raramente ci facciamo caso”. Che fare, allora?
«Si tratta di un’indicazione di metodo. L’atteggiamento ca­ta­strofista può lasciare il po­sto a un movimento di scoperta, visto che abbiamo le potenzialità per provare a cambiare le cose. L’uomo, con la sua mente, ad esempio, può essere concepito come un individuo capace di contenere l’infinito; un infinito in cui ci sono infinite forme, in­finite possibilità e anche in­fi­niti rimedi. Siamo stati noi a creare i “guasti” di cui ci la­men­tiamo, quindi logicamente potremmo supporre di riuscire a trovare le soluzioni».

All’attività di scrittore si af­fianca quella di attore. Co­me coesistono?
«C’è il dispiacere che le due cose siano esclusive, per cui a volte bisogna scegliere, non potendole sovrapporre. È un peccato non poterle fare en­trambe, fino in fondo. Se sono sul palcoscenico e mi viene un’idea, questa svanirà se non ho il tempo di darle lo spazio che essa merita quando arriva, come un lampo».

Ci sono punti di contatto?
«È più facile trovarli tra il teatro e la scrittura. Il teatro quasi sempre si occupa dei grandi temi che riguardano l’uomo, te­nendo conto del discorso linguistico e della parola. Il film non si preoccupa dell’articolazione del linguaggio in termini artistici. Per varie ragioni, il lavoro che l’autore fa sul linguaggio avvicina molto la scrittura letteraria al teatro e non al cinema. Il punto di contatto è questo: sono esperimenti che si fanno sull’uomo. Facendo l’attore si dà respiro, carne, sguardo e voce a qualcosa che è stato scritto; nella scrittura, invece, si creano le premesse perché questo accada nell’immaginazione del lettore. Tutto ciò avviene nello stesso campo, quello della sperimentazione che facciamo – attraverso l’arte – sull’uomo che si trova in particolari circostanze della propria vita».

Tra gli ultimi progetti, in ordine di tempo, ci sono “The Bad Guy” e “Delta”, entrambi parecchio originali. È l’innovazione ciò che più la incuriosisce?
«Non seguo l’innovazione in termini di rapporto con lo sguardo degli altri, bado a ciò che è nuovo per me. Sia in termini espressivi che generali. Leggendo la sceneggiatura di “The Bad Guy” mi rendevo conto che c’era qualcosa che mi sorprendeva e, se mi sorprendeva, voleva dire che aveva dentro qualcosa di originale. L’elemento dell’inesplorato per me è un qualcosa che mi aiuta a desiderare di esserci».

C’è l’idea di tornare a dirigere un film?
«È un sogno che c’è dal giorno dopo in cui è uscito il mio pri­mo film, “La città ideale”. È stato un momento felice: un sentirsi dentro pienezza e gioia creativa. Stare sul set co­me regista è un’esperienza po­tente, quindi ho il desiderio di riprovare qualcosa di simile. Siccome l’idea che ho sembra molto vicina a diventare una sceneggiatura, im­magino che l’anno prossimo possa esserci la possibilità di preparare e girare il film».

A cura di Domenico Abbondandolo