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«Figlio di magistrati e faccio teatro… si sono ricreduti»

“Il tempo attorno” di Giuliano Scarpinato è quasi un’autobiografia: «Un processo catartico»

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«Voglio fare il regista di “Fo­­­rum”, por­­tare la recitazione degli attori al parossismo, all’espressionismo, al da­daismo, vestirli ora di pelli di leopardo, ora di pepli, ora di co­stumi elisabettiani, grandi parrucche, e poi inserire dei mo­menti danzati, luci strobo, ogni tanto dall’alto far cadere la ne­ve la pioggia i coriandoli, vo­glio farlo perché sono certo che il pubblico di “Forum” non la­scerebbe mai “Forum,” il pubblico di “Forum” ci vuole credere a “Forum”, a ogni costo, “Fo­rum” è una religione». Così, dal profilo Facebook di Giu­liano Scarpinato. Uno cresciuto a pane e processi, ma non quelli in tv. Figlio di due magistrati, padre e madre, ha scelto di essere un teatrante se­rissimo fin da ragazzino, e allora vuoi che non si immagini anche lui a dirimere un dibattito con tanto di sentenza.

Scarpinato, cos’è questa co­sa di “Forum”?
«Uno scherzo. Ho fatto un post e lei lo ha letto».

L’hanno letto anche i suoi ge­nitori?
«Guardi che mia madre non si perde una puntata».

Mi sta dicendo che Teresa Principato, giudice in prima linea nelle indagini che portarono alla cattura di Matteo Mes­sina Denaro, guarda “Fo­rum”? Non gliel’ha detto che è tutto finto e le parti in causa sono suoi colleghi che devono arrotondare paghe da fa­me?
«Avevo fatto persino un provino e in ogni caso lo sa benissimo. Ma mi ha risposto che le interessa il caso giudiziario. Si diverte perché rintraccia una casistica. “Forum” è seguitissimo».

E quindi “Il tempo attorno”, suo prossimo spettacolo, sa­rà ispirato a “Forum”?
«Ma no! “Il tempo attorno” è il mio nuovo testo, la storia di due giudici antimafia e il loro giovane figlio tra la fine degli anni ’80 e il processo An­dreotti. Lo spettacolo debutterà al Teatro Biondo di Palermo a fine dicembre».

Chiaramente un testo autobiografico.
«Sì, l’ispirazione è autobiografica, ho cambiato i nomi ma la materia è autentica. Il tema è co­me la grande Storia si ripercuota su quella minima e privata delle persone. E io come fi­glio ho vissuto le conseguenze di quel periodo. Gli attentati a Falcone e Borsellino, l’omicidio del piccolo Giuseppe Di Mat­teo, disciolto nell’acido. Un fatto che mi impressionò molto perché a quei tempi an­ch’io ero bambino e realizzai che la mafia può essere talmente feroce da non risparmiare nemmeno i bambini».

Si può dire che lo spettacolo sia una sorta di soggettiva?
«Non solo, nel senso che il mio sforzo è stato quello di portare in scena le ragioni di tutti. È stato come compiere un processo catartico che mi ha aiutato a superare la dimensione di figlio e a non far ruotare la vi­cenda attorno al mio solo pun­to di vista».

I suoi genitori come l’hanno presa? Ne avete parlato?
«Li ho proprio intervistati co­me se fossi un cronista e ho sottoposto loro il testo compiuto. Non mi sarei sentito di procedere senza la loro approvazione».

E a proposito di approvazione, suo papà, il giudice Roberto Scarpinato, eletto senatore alle scorse elezioni politiche con il Movimento 5 Stelle, ha beneficiato della sua, ricordo benissimo il suo garbatissimo endorsement sui social.
«Ero in dubbio se farlo o meno, e non perché temessi le critiche ma perché non ho mai pensato che il mio cognome dovesse essere rilevante nel mio percorso. Qui però ha prevalso il desiderio di dire chiaro qualcosa che so, cioè che al di là del credo politico, c’è un uomo di grande onestà, buona fede e abnegazione, che ha speso tutta la sua vita per fare qualcosa di buono per il nostro Pae­se».

Tra voi è sempre andato tutto liscio?
«Da adolescente sono stato anche molto arrabbiato, so­prat­tutto per la sua lontananza in momenti cruciali, ma adesso, che ho la sua età di allora, è più facile mettermi nei suoi panni e le cose cambiano for­ma. In questo l’arte e il teatro hanno un grande potere trasformativo e lenitivo».

Il suo desiderio di fare teatro è stato assecondato senza pro­blemi?
«No. All’inizio ho dovuto lottare con entrambi, preoccupati che il teatro fosse qualcosa di troppo aleatorio».

Dagli torto… E poi?
«Poi si sono ricreduti, soprattutto da quando ho incominciato a lavorare come autore e regista».

Però è curioso che il figlio unico di due magistrati scelga di fare l’attore.
«Per me è stata una chiamata. Ero al liceo e quando un rappresentante di Istituto è venuto a presentarci i corsi extra e ha parlato di teatro, sono saltato in piedi come se avessero suonato un campanello. Avevo quindici anni e non ho più smesso».

Toccando anche cinema e dan­za. In cosa consiste “All about Adam” che vedremo il 6 luglio a Castiglioncello per il fe­stival Inequilibrio?
«È il mio primo progetto interamente coreografico sul tema dell’identità maschile nel suo specifico italiano. L’intento è sondare i territori della nuova mascolinità e per questo la coreografia si muove su un tessuto di brani da Tg, tribune politiche, film, canzoni, scorie di storie note del maschile».

Ma perché specifico italiano?
«Perché voglio partire da vicino, da quello che posso più fa­cilmente analizzare e il maschile italiano è molto identificativo, ha anche a che fare con il folclore. Mi rifiuto di credere che il nostro modo di vivere il maschile abbia solo a che fare con le nostre piccole vite e cre­do invece sia il risultato di una storia che si è fatta prima di noi. E la domanda è: esistono figure di riferimento e se sì come le assorbiamo?».

Qual è la risposta, se c’è?
«L’indagine danzata rimane aperta ma l’idea è che in questa nuvola radioattiva non possiamo non avere assorbito qualcosa».

Il suo lavoro di autore è sempre rivolto a figure liminali. Pen­so a “Fa’afafine”, storia di un bimbo gender fluid, o an­che a “Se non sporca il mio pa­vi­mento”, sul caso della professoressa as­sas­sinata da un ex allievo, da cui poi ha tratto il film “Gioia”, premio Franco Solinas 2021 alla migliore sceneggiatura.
«“Fa’afafine” nacque perché rimasi affascinato dal fatto che bambini così piccoli potessero rivendicare con tanta forza la libertà identificativa. Una questione su cui nel 2023 bisogna riflettere seriamente. Della storia della professoressa invece mi ha colpito innanzitutto l’aspetto sentimentale, melò, una parola che amo, che esprime il succo di sentimento. Penso sia sano parlare di sentimenti in questa società indurita».

E il teatro può parlarne in mo­do durissimo.
«Il teatro si deve occupare della realtà e del benessere delle persone. Se non riesce in questo non ha centrato l’obiettivo. Il teatro deve essere politico, come lo era alle sue origini»

Il suo sogno?
«Fare “Baccanti” a Siracusa. F­i­gure per eccellenza liminali, dirompenti, che mettono tutto in discussione».

Articolo a cura di Alessandra Bernocco

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