«La mia missione in Ucraina tra aiuti e il suono delle sirene»

Il braidese Roberto Cagnazzo racconta l’esperienza condivisa con otto volontari e padre Albano Allocco

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La vita è una questione di scelte e di incontri che segnano e determinano esperienze che moralmente e umanamente lasciano un segno. Così è stato per Roberto Cagnazzo, che ha deciso di portare il suo aiuto in Ucraina.
«Una scelta maturata in verità per la seconda volta», spiega. «A Baia Mare, città della Romania a poco meno di 60 chilometri dal confine ovest dell’U­craina, c’è una casa di padri Somaschi dove padre Albano Allocco, sarcedote originario di Bra, e per lungo tempo impegnato anche nel Villaggio della Gioia a Narzole, porta aiuto e sostegno alle popolazioni che vivono in quell’area. E lo fa attraverso una scuola e una casa per i bambini abbandonati. L’in­ten­sificarsi del conflitto bellico ha accresciuto i rapporti con il Sermig di Torino che, in virtù delle urgenti necessità legate proprio alla guerra ha dato avvio ad una cospicua raccolta di beni utili alle popolazioni colpite: alimenti, prodotti per l’igiene, pannolini e cibo per bambini e neonati, medicinali oltre a indumenti e molti altri prodotti… Tanti viveri che si è reso necessario distribuire at­traverso piccoli furgoni alle persone bisognose. E così, padre Albano, un prete molto “sul campo” con la collaborazione di Istituzioni religiose e con il supporto di altre organizzazioni umanitarie sul posto ha dato vita alla missione denominata “Ope­ra­zione ci­co­gna” volta proprio a distribuire direttamente questi viveri ai bisognosi, per evitare dispersioni al mercato nero».

E lei, signor Roberto, come è riuscito a far parte di questo gruppo di volontari? E perché ha deciso di partire?

«In realtà ho offerto il mio aiuto a Baia Mare già lo scorso anno, grazie ad un amico che mi ha messo in contatto con il Sermig. Sono rimasto alcuni giorni e ho aiutato altri volontari presso la casa di accoglienza dei Padri Somaschi, poi mi è stata offerta la possibilità di effettuare una consegna a Leopoli. Succes­sivamente il gruppo di volontari ha continuato nelle consegne nelle aree di Kiev, Bucha, ma mai sotto le linee di fuoco. All’inizio di giugno, dopo il contrattacco U­craino, è maturata l’opportunità di fare una missione e così domenica 25 giugno, con altri cinque volontari italiani e due rumeni siamo partiti con quattro furgoni diretti nella regione del Donbass. Abbiamo attraversato l’intero Stato e incontrato un’organizzazione locale, al centro dell’Ucraina, proseguendo poi per Zapo­rizhzhia dove hanno preso il via ben quattro missioni. La prima all’Ospedale cittadino, al rifugio antimissili e due in villaggi a pochi chilometri dalle linee di fuco che per motivi di sicurezza sono stati elusi anche dalla geolocalizzazione dei nostri telefoni. Lo scorso anno maturai la scelta di partire in missione pochi giorni prima di Pasqua quando vidi in tivù immagini che mi toccavano e festeggiare la Pasquetta con amici e la classica bracciolata mi sembrava un gesto di indifferenza troppo grande. E così libero da impegni, anche familiari, scelsi di dedicarmi a questa missione che ritengo importante per comprendere il significato di comunità, appartenenza, solidarietà. Quest’anno ho risposto alla chiamata di Padre Albano che aveva necessità di autisti».

Cosa ha visto in questi luoghi?
«Nei villaggi la devastazione, lo sconforto e la paura negli occhi dei pochi residenti rimasti, perlopiù donne, anziani e bambini. E poi la distruzione, la mancanza di acqua, la rassegnazione e anche l’accettazione delle conseguenze del conflitto… Nel corso di queste operazioni eramo scortati dai militari e per entrare e uscire dai centri abitati abbiamo attraverso diversi check point. I nostri furgoni naturalmente erano identificabili, caratterizzati da insegne e loghi umanitari molto riconoscibili».

Nel corso di questa missione ha mai avuto paura… temuto per la sua vita?

«Beh diciamo che la sensazione di allerta e massima attenzione accompagna un po’ ogni azione quotidiana in quei luoghi… Ho temuto, in particolare, un giorno: un cambio di programma ha dirottato il nostro furgone in un’area non troppo sicura. Siamo stati avvisati della presenza di droni e ricordo un uomo che correva verso il nostro furgone urlando con foga “War, war” sottolineando che eravamo in un’area al centro di un contrattacco. Si alzava la tensione anche quando ci chiedevano di viaggiare con i mezzi di­stanziati di 100 metri e speditamente… E nonostante la velocità lungo la via si vedevano camion carri armati fermi, appostati… Nei villaggi invece, dove avvenivano gli scontri, sentivi il tonfo delle bombe che partivano e arrivavano, mentre nei grossi centri non mancava mai il frastuono delle sirene antimissili. Nelle zone periferiche il paesaggio e lo scenario sono perlopiù caratterizzati da missili inesplosi e rimasti abbandonati sul terreno; campi minati che restano così per timore di nuovi attacchi russi; edifici, palazzi e scuole in parte distrutti dagli stessi ucraini perchè covo di milizie russe… Nelle aree più periferiche sono evidenti i segni dei saccheggi, dei furti di bestiame, ma anche della povertà, della miseria… La fotografia forse più realistica, ma anche più struggente che mi è rimasta nel cuore, è l’abitudine, direi rassegnazione di queste genti all’assordante suono della sirena, che ho percepito la prima volta nei pressi di un distributore e che d’istinto mi ha fatto alzare gli occhi al cielo scrutandone l’azzurro e te­mendo il peggio.
In alcuni paesi campeggiano affisse le immagini dei giovani e meno giovani militari caduti.
Esiste anche un’app con allert in grado di segnalare con approssimazione le aree geografiche che saranno bersaglio di lancio di missili ed un’altra applicazione che delimita le aree oggetto di battaglie campali. I residenti delle città per ripararsi hanno a disposizione rifugi attrezzati, ma tanta è la rassegnazione a questo conflitto che ormai questi luoghi sono davvero poco frequentati. Spero davvero si arrivi presto alla fine della guerra».