Attrice, comica, conduttrice radiofonica. Così recita la pagina Wikipedia di Paola Minaccioni. Chissà perché. Chissà perché c’è sempre bisogno di distinguere, specificare, circoscrivere la comicità e farne una categoria autonoma. Come se essere attrice non fosse di per sé sufficiente a comprendere tutte le variabili del mestiere, come se si potesse essere comici senza sapere recitare. Non intendiamo i comici loro malgrado, naturalmente, poiché quelli abbondano, eccome, e più fanno ridere più si prendono sul serio, pur senza essere attori. Basta guardare certe ospitate in tv per farsi un’idea insieme a quattro risate. Quelle volte in cui si dice “ridere per non piangere”. Ma è una pecca tutta italiana, di cui spesso fanno le spese i più bravi, che faticano a svincolarsi da ruoli e generi che li hanno resi famosi, come se si rischiasse di disattendere le aspettative del pubblico. Un grande errore. Chi scrive, ad esempio, ricorda Paola Minaccioni in una lettura a tre voci di un poema epico sulla campagna di Russia, insomma non proprio una cosetta amena, e in quell’occasione si era commossa fino alle lacrime.
Paola, ma esiste o no uno specifico comico?
«Esiste nel senso che nella comicità non si finge, cioè non si è mai certi della risata, non si sa nemmeno se arriva quando la si aspetterebbe. Per questo gli attori comici devono avere la capacità di superare la quarta parete e guadagnarsi veramente l’ascolto del pubblico, motore che li spinge a regolare il ritmo in base a quello che succede in platea. Il che non significa tirar fuori una barzelletta se ci si accorge che il pubblico si annoia…».
Quindi la suddivisione tra comico e tragico è attendibile?
«È una precisazione sciocca perché non prevede che se un attore è bravo nella commedia possa anche sapere far piangere. In realtà l’esercizio all’ascolto rende gli attori efficaci anche negli spettacoli drammatici».
Uno spettacolo nel segno dell’ascolto è quello che sta portando in giro da circa cinque anni, scritto insieme con Michele Santeramo e diretto da Paola Rota, “Dal vivo sono molto meglio”. Esattamente di cosa si tratta?
«Uno spettacolo in stile “stand-up comedy”, una carrellata di personaggi in cui si passa da un argomento all’altro seguendo però un filo conduttore: la vita di una donna che si è separata raccontata in modo pretestuoso, cedendo la parola ai personaggi che intervengono per darle consigli e aiutarla a superare il lutto della separazione. Una situazione da cui sono passati tutti».
Lo crede davvero?
«Non auguro a nessuno di passare tutta la vita con il compagno o la compagna incontrati a sedici anni. Per riconoscere la persona giusta bisogna essere formati».
Domanda diretta: è fidanzata?
«Ho una relazione con l’uomo che ha appena citofonato».
Un attore?
«No, per carità! Ho sbagliato due volte ma adesso basta. Uno in famiglia è più che sufficiente».
E quale sarebbe il valore aggiunto?
«Non parlare sempre delle medesime cose, avere un buon motivo per distrarmi da me stessa».
Tra le tante consigliere in merito alla “sua” separazione c’è anche la premier Giorgia Meloni, cosa le dice?
«Io la imito solo in funzione del “mio” problema sentimentale e ne esce una sorta di madre chioccia che accetta il maschio che la circuisce e gli cucina una carbonara. Un maschio da prendere per i fornelli».
Parliamo invece de “L’attesa”, lo spettacolo dal testo di Remo Binosi, diretto da Michela Cescon, che ha visto in scena lei e Anna Foglietta, una storia di donne meravigliosamente scritta da un uomo, con un finale tragico e paradossale.
«Un progetto bellissimo nato dopo che noi stesse ci siamo scelte, annusate, conosciute. Si parla di due donne diverse per estrazione, entrambe vittime del loro destino, che verranno punite dalla storia. Il testo è ambientato nel Settecento ma riesce a parlare di oggi; non è marcatamente femminista ma è animato da un femminismo di sostanza. È poetico e non così esplicito da diventare un manifesto».
E dire che è stato scritto, appunto, da un uomo.
«Di questo sono molto contenta perché dimostra che anche gli uomini ce la possono fare. Il nemico è culturale, non il maschio di per sé».
Un po’ di tempo fa ha dato vita, con Paolo Triestino e Nicola Pistoia, a “Li Romani in Russia”, lo straziante e delicatissimo poema in versi di Elia Marcelli, testimonianza diretta della campagna di Russia. Cosa rappresenta la lingua romana per lei?
«Amo molto la cultura e la poesia romana e quell’esperienza, bellissima, fa parte del mio percorso in tal senso. Credo che il discorso sulla lingua sia il miglior ritratto di un popolo e del suo grado di civiltà. Recentemente ho portato nel Tempio di Venere “L’urlo di Roma”, dove leggevo i sonetti del Belli, che appena posso cerco di esplorare».
È vero che li ha portati anche in Romagna, subito dopo l’alluvione?
«Sì, invitando gli spettatori a salire sul palco per leggere o raccontare una poesia in romagnolo. E al di là della potenza della poesia, il teatro è sempre esperienza di riconoscimento e catarsi. Io i sonetti non li spiego, anche se molte parole non sono note nemmeno ai romani, ma grazie al suono arrivano lo stesso e raccontano i rapporti con il potere, il papa, il re, l’umanità, la legge, il sesso».
E a proposito di Roma, suo papà Roberto è stato per molti anni il massaggiatore della “Magica”. Lei è romanista?
«Ma certo, con due nipoti e un cognato laziali».
E suo papà come l’ha presa?
«Con intelligenza. Lui è anzitutto uno sportivo, poi è anche romanista. In casa c’è molta tranquillità rispetto allo sport».
Articolo a cura di Alessandra Bernocco