Da oggi (giovedì 14) è nelle sale con “L’invenzione della neve”, il film di Vittorio Moroni presentato alla Biennale Cinema nelle Notti Veneziane delle Giornate degli Autori. Ma Alessandro Averone, dodici film all’attivo e la partecipazione a numerose serie tv di successo, è innanzitutto attore di teatro: innanzitutto, perché in teatro è stato battezzato, in teatro continua a rivestire ruoli primari, in teatro è scelto e benvoluto da registi del calibro di Peter Stein, Federico Tiezzi, Gigi Proietti. D’altra parte (e vivaddio), anche il nostro cinema, e non soltanto indipendente, sta sfatando sempre più la vecchia trita italianissima convenzione che vede teatro e cinema come due universi separati, non comunicanti, chiusi in un’autosufficienza che non ha dato buoni frutti. E l’avere attinto a un bacino garantito di bella gente di teatro è senz’altro un merito di questa produzione che schiera in campo anche le brave Elena Gigliotti e Anna Ferruzzo e si avvale di autori come Luca De Bei e Igor Brunello, sceneggiatori insieme a Moroni.
Averone, cosa tratta questo film e qual è il suo ruolo?
«È la storia di una coppia dal passato burrascoso, l’esistenza ai limiti della legalità, droghe comprese, con una bambina di mezzo, contesa tra i due, affidata al padre, rapita dalla madre che nel frattempo ha perso il lavoro, i servizi sociali che cercano di fare il loro mestiere».
Insomma una storia non nuova di vite borderline: ci sarà il lieto fine?
«Il finale è aperto ma secondo me il lieto fine non c’è».
Le prime recensioni da Venezia sono molto positive. Si è addirittura chiamato in causa John Cassavetes. È vero che avete lavorato molto sull’improvvisazione?
«Sì, il provino stesso si è basato sull’improvvisazione e l’impianto è molto teatrale. Ci sono solo sei scene, ognuna strutturata in tre giorni, ed è tutto girato in piano sequenza, scene lunghe in cui quasi dimenticavi la macchina da presa. Anche i dialoghi vivono di un ampio margine di improvvisazione e ascolto e ogni attore ha ricevuto indicazioni individuali per tentare strade alternative ed estreme».
Finalmente il cinema si è accorto del teatro e al teatro attinge non solo attori ma registi e drammaturghi.
«Infatti. Quando io ho cominciato c’era una certa diffidenza del cinema nei confronti di chi veniva dal teatro. La tendenza era a dire “fai meno”, “sei sopra le righe”, “sei eccessivo”. Io credo che ci debba essere un equilibrio tra teatralità estrema ed estremo “buttar via”, e che oggi ci sia un buon incontro al centro».
Secondo lei da cosa dipende?
«Dipende anche dalla quantità di prodotti audiovisivi di buona qualità che ha innescato una competizione positiva. Il fatto che la qualità generale si sia alzata, ci sia una ricerca di spessore è solo un bene per il lavoro degli attori».
Cosa ama del teatro che di solito scarseggia nel cinema?
«Il teatro ha tempi più organici e io amo il lavoro lento di costruzione di un personaggio. Inoltre, la recitazione in teatro è un lavoro di gruppo».
In teatro ha lavorato con grandi maestri; le chiedo due battute sui suoi lavori più recenti: Giasone in “Medea” diretto da Federico Tiezzi e il protagonista de “Il compleanno” di Harold Pinter in cui per la quinta volta è stato diretto da Peter Stein.
«Quella di Giasone è stata un’esperienza unica anche perché è unico lo spazio del Teatro Greco di Siracusa, uno spazio anche pop, com’era nato. Come Giasone, ho voluto credere al sogno di famiglia allargata che dice di avere e restituirgli un’anima e una vera affezione nei confronti dei figli. Per fare “Il compleanno” invece ho rinunciato a una serie che si sarebbe sovrapposta e ho fatto bene, mi sono fidato di Stein, come sempre, sapendo che la linea si sarebbe trovata. Il mio personaggio è misterioso, complesso, volevo si vedesse che cammina su un burrone e per questo entra in scena già rotto, incrinato».
Le somiglia almeno un po’?
«Non mi somiglia ma lo sento vicino, parte della mia famiglia. Mi incuriosisce capire perché si arriva a perdersi, quella parte del nostro essere al mondo che non è risolto».
È per questo che come regista ha voluto affrontare Beckett?
«Il più grande. Dirigere “Aspettando Godot” mi ha cambiato il rapporto con la scrittura teatrale. Facendo Beckett capisci cosa vuol dire scrittura pensata per essere agita. Beckett ha una capacità metaforica e di sintesi potentissima. Le situazioni sono sempre inquadrate in un contesto disperante che è poi quello dell’essere umano, ma c’è però una luce, uno spiraglio, un istinto vitale nei personaggi che indica una via di uscita, che in Pinter non c’è».
Nato a Torino, vissuto a Vercelli, figlio e nipote di medici e dentisti, diploma alla Silvio D’Amico: vocazione precoce, casualità, ribellione?
«Da piccolo volevo fare il dentista come il mio nonno materno, poi è arrivato il corso di teatro, al liceo: non sapevo nemmeno chi fosse Strehler, il teatro è stato la scoperta di un luogo in cui “non succede niente ma tutto è lecito”, una via che mi parla e corrisponde. Riguardo a questo mestiere ho sempre pensato una cosa: che se lo fai come va fatto sei sempre senza pelle ma con una consapevolezza attiva, in quanto sei tu stesso lo strumento di lavoro».
C’è un metodo che difende?
«La recitazione è come quell’animale di cui non si butta via niente. Chi ha inventato un metodo è perché ha trovato la sua verità ed è importante che ognuno trovi la propria, importante è trovare una strada tua che prevede sempre di incontrare le strade altrui e capire se ti confanno. Bisogna essere ricettivi, come spugne. Quello che dobbiamo restituire è talmente ricco e complesso che sarebbe riduttivo fossilizzarsi su un unico metodo».
Un sogno?
«Un desiderio. Creare, a Roma, uno spazio con un’identità precisa, in cui fare teatro interrogandosi su cosa è davvero necessario».
A cura di Alessandra Bernocco