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«Io, tra la pesca della discordia e il teatro sociale»

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Tutto per una pèsca! «C’è chi diventa un me­me nazionale per avere fatto “Lo chiamavano Jeeg Robot” e chi per una pèsca». Scherza Mauro Santopietro, il papà separato della pubblicità Esselunga, la più dibattuta del momento, e non se ne fa certo un cruccio, liquidando la polemica con poche battute. «Un gioco partito dai social. Io l’ho presa a ridere e non mi sta cambiando la vita». Già, ma perché decenni di spot e spottini che ritraggono improbabili famiglie felici, riunite attorno a una me­rendina o a una fetta biscottata spalmata di marmellata, non han­no sollevato nessuna questione? Lui fa capire che è perché sono, appunto, soltanto spot. Ovvero messaggi brevi, che non prevedono un tempo di riflessione.

Mi spieghi meglio.
«Io credo che la chiave di questa pubblicità sia il tempo. L’avere dedicato due minuti a un prodotto commerciale che si rivela alla fine, lasciando a chi guarda un tempo di riflessione. In 45 se­condi non si ottiene lo stesso ef­fetto perché il messaggio viene appiattito e confuso con la comunicazione di qualsiasi prodotto».

E quindi si può anche diventare un meme per una pubblicità. D’altra parte ci sono illustri precedenti: mi viene in mente Pao­lo Ferrari, un mo­nu­mento del teatro di pro­sa, quando da qualcuno veniva identificato con il signore gentile che offriva due fustini in cambio di uno.
«Infatti il punto è un altro: diventare un meme meritatamente, per aver dimostrato una grande bravura in un film, com’è il caso di Luca Marinelli in “Jeeg Ro­bot”, o in una serie, o anche a teatro, va bene, ma io non lo merito, non ho ancora dimostrato nulla, meno che mai in questa pubblicità. Forse avrei le qualità per farlo e vorrei tanto mettermi alla pro­va ma per il momento non mi è ancora stato proposto».

Forse perché diventare un meme facendo teatro è davvero dif­ficile. Perché lei, di tea­tro ne ha fatto un bel po’.

«Sì, e comunque non è che la bravura si attesti attraverso un meme».

Parliamo allora di teatro: nel suo curriculum c’è tanto Sha­ke­speare, almeno una decina di spettacoli, ma anche Be­ckett, Pi­randello, Ibsen, in­som­ma grandi autori e allestimenti importanti.
«Shakespeare rappresenta la mia palestra più importante. Reci­tan­dolo si impara a essere concreti nella recitazione, cioè a fare in modo che la parola diventi azione. Per un attore è molto importante incontrare autori, storie e personaggi in cui ci si possa ritrovare, in assenza di giudizio. Tra­me esterne da rendere concrete ma anche le trame interne, quelle che muovono le fila di un personaggio».

Da Shakespeare al teatro shakespeariano per eccellenza, il Glo­be Theatre, non solo di Lon­dra ma anche di Roma: quello fondato da Gigi Pro­iet­ti, quello dove lei ha recitato quasi ogni anno, quello che adesso stanno mi­nac­ciando di abbattere. La no­tizia è fresca: le chiedo un pensiero.
«L’ennesima prova di una mancanza di dialogo tra la politica e la cultura. Leggere sui giornali che il Globe intitolato a Gigi Proietti rischia di essere abbattuto, senza la promessa che verrà ricostruito, è il segno di una grave mancanza di rispetto e di coscienza civile».

Ma è vero che il progetto iniziale prevedeva che ogni anno venisse smontato e poi ri­mon­tato la stagione successiva?

«Ma non sta agli artisti dire “siamo sicuri o è meglio smontarlo”. Sta a chi ha ruoli e competenze per dire cosa si può fare e cosa no».

In compenso ci sono piccole realtà che resistono. Stando al pubblico, il teatro se la passa meglio del cinema.

«Ci sono spazi che hanno fatto una scelta di coraggio e serietà ma stanno soffrendo».

Eppure so che fa parte di una compagnia di outsider e state cercando uno spazio nella capitale. Volete soffrire anche voi?
«Si chiama Knukc Company e sarà attiva fino a quando saremo in vita noi, sofferenti o meno. Stiamo cercando uno spazio a Roma, aperto dal mattino alla sera, dove proporre un modo di fare un teatro popolare, in senso alto, un teatro fatto col cuore, insomma fuori dalle logiche di mercato».

Non ha mai pensato che il suo fisico, il suo aspetto o la sua statura possano creare problemi al mattatore di turno?

«Mah, una volta feci un provino per “Macbeth”, il regista mi dis­se: “sei bravo, quanto sei alto?” e poi non mi prese. La verità è che la vita di tournée richiede una varietà umana tale che la lotta non è sempre soltanto sulla bravura. Quando la tournée è lunga devi anche sceglierti l’equipaggio giusto».

Ha svicolato ma apprezzo. A co­­sa si deve invece la scelta di dedicarsi al teatro sociale e alle relazioni di aiuto? Penso alla sua attività con un centro anziani, con il “Bambino Ge­sù”, con persone affette da disturbi alimentari e con gli immigrati dei centri di accoglienza.

«Si deve alla volontà di mettermi a servizio di chi mi dà valore. Il complimento più bello l’ho ricevuto da una signora che mi ha detto “grazie di avermi fatto scoprire cose di mia madre che non conoscevo”. E gli anziani stessi mi dicono che attraverso il teatro hanno ricordato parti dimenticate della loro vita».

Ben diverso è lavorare con ra­gazze e ragazzi con disturbi alimentari…
«Io chiedo loro: “cosa ti rende felice” invitandoli però a cambiare soggettiva, cioè a non schiacciare la narrazione sul proprio giudizio di sé e su quello degli altri. Cambiare il punto di vista è il primo passo per ritrovare nuo­ve emozioni e fare nuove esperienze».

Di qualche tempo fa, invece, è l’operazione “Banchi!”, con cui ha vinto il bando “MigrAr­ti”, debuttando al Teatro India di Roma alla guida di un grup­po di ragazzi immigrati di seconda generazione.
«Anche qui il lavoro è nato dalla narrazione delle loro storie e da una presa di coscienza, attraverso il confronto. Il teatro è stato una vetrina importantissima per loro, oltre a essere sempre un’occasione reciproca di comprensione».

La sua attenzione alla drammaturgia, nata in accademia e proseguita con adattamenti e opere autografe, l’ha portata alla recentissima pubblicazione di due testi per Chi Più Ne Art Edizioni, “Io e il mio cuore non siamo mai vissuti” e “Nina Zarecnaja”: di cosa si tratta?
«Il primo testo è una riflessione sul rapporto tra l’artista e la contemporaneità, ieri e oggi, attraverso la relazione tra Lilja Brik e Vladimir Majakovskij, il secondo è uno spin-off de “Il gabbiano” di Cechov che si concentra su Nina, il personaggio che ha rinunciato a ogni legame, vero o finto, per fare l’attrice, ma senza ottenere un ritorno. In entrambi i casi, e non solo in questi, il motore di partenza è sempre lo stesso: raccontare la spaccatura tra l’identità dell’artista e la realtà».

Articolo a cura di Alessandra Bernocco

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