«Io, Arlecchino oltre la maschera: sto con gli oppressi»

Abbiamo incontrato Ferruccio Soleri, monumento del teatro italiano nel mondo e ambasciatore Unicef: «Il modo migliore per farsi comprendere è rispettare le diversità»

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Lunedì 20 novembre, al Teatro Gobetti di Torino, riceverà il premio alla carriera assegnatogli all’unanimità dal­l’Associa­zione Teatrale Critici di Teatro. Ferruccio Soleri è un monumento del teatro italiano conosciuto in tutto il mondo, maestro di quella tradizione che tanto inorgoglisce la coscienza teatrale del nostro Paese, che è la commedia dell’arte. Arlec­chi­no per antonomasia, consacrato da Giorgio Strehler, Soleri è un segno scolpito nella memoria di generazioni di artisti e di pubblico che lo hanno applaudito e riapplaudito, per puro piacere e per seguire ogni volta i mutamenti della sua maschera.

Partiamo proprio da qui: è cambiata nel tempo la ma­schera di Arlecchino an­che in relazione ai mutamenti della compagnia?
«Sicuramente il tempo ha determinato dei cambiamenti che hanno toccato tutti, perché è uno spettacolo corale, basato sui ritmi. I più significativi sono dovuti agli approfondimenti storici e filosofico-scenici apportati da Strehler, e in parte alle decine e decine di attori che hanno prestato volto e carattere agli altri personaggi. Basti pensare alle diverse edizioni: l’edizione dell’addio, l’edizione del buongiorno… Già dal titolo si comprende la mutazione».

Non si è mai sentito stretto nel ruolo, insomma non ha mai detto: “Se non fosse per Ar­lecchino potrei fare, per esempio, Amleto o Re Lear”?
«All’inizio della mia carriera speravo di interpretare ruoli complessi che potessero farmi notare. Anche nel ruolo di Ar­lecchino, all’inizio, mi è capitato di scalpitare. Poi con il tempo ho capito la grande opportunità che mi offriva e ho cercato di studiare, approfondire, perché diventasse un unicum. Sulla scena la mia maschera perdeva i caratteri stereotipati per diventare un immenso fattore uma­no, andando via via prendendo forma come fatto personale, im­merso nelle mie esperienze, nella società in cui vivo. Ar­lecchino è un personaggio storicizzato, l’immagine di un uomo in lotta tra due mondi con tutte le sue contraddizioni. È la psicologia di rivalsa degli oppressi, degli individui costretti a salvarsi di fronte a forze incomprensibili. Un ruolo importantissimo e tan­to vero da durare per sempre».

Com’era il suo rapporto con Strehler e con gli attori in compagnia?
«Strehler era molto esigente perché, dando moltissimo, si aspettava un ritorno. Non posso dire di essere stato suo amico ma certamente ci legava un rispetto reciproco. I compagni di viaggio sono stati tutti molto attenti nel riconoscere che il mio ruolo chiedeva tanta fatica e facevano il possibile per facilitarmi. La scena è in continuo movimento e non si può sbagliare. Non mancava mai la vo­glia di ridere e scherzare. Una volta, durante la scena dei bauli, mentre osservo stupito un ri­tratto sbucato dalle tasche dell’abito di Florindo, mi trovo a rimirare un disegno che per pu­dore non descrivo. Trattenere la risata è stata dura».

Dopo la morte di Strehler prese in mano le redini dello spettacolo. È stata dura anche lì?
«La compagnia era molto affiatata e io ho sempre cercato di man­tenere il rigore che il Mae­stro metteva tra la parola e il gesto».

Come si può ovviare all’inespressività della maschera?
«Creando un linguaggio fortemente semiotico con la testa, il collo, le braccia, le gambe, l’intero corpo e talvolta anche con gli oggetti di scena. Bisogna che i sentimenti che normalmente il viso esprime affiorino lo stesso. E allora ecco il gesto che viene in aiuto. Se sono contento il sorriso degli occhi ne è il racconto, con il volto coperto questo non si vede e, allora, modificare il cappello con foggia spiritosa, as­su­mendo un atteggiamento don­­dolante, può far arrivare al pubblico il sentimento».

Trova giusto che alcune commedie di Carlo Goldoni (penso ad Arlecchino, ma non solo) sia­no sottoposte alla cosiddetta attualizzazione e alcune ad­dirittura affrontate quasi alla stregua di drammi borghesi?
«Credo che i testi non vadano toccati. La riduzione teatrale o cinematografica può in molti casi essere attualizzata, mettendo però in conto di perdere il contesto storico-temporale che l’ha vista nascere. Il messaggio no, quello è universale e non è contestualizzabile».

Mi fa un esempio di attualizzazione possibile, che tutti possano capire?
«Il film che vede Paola Cor­tel­lesi regista (“C’è ancora domani”) parla della condizione tristissima della donna nel dopoguerra. Ecco, questa lettura può essere sicuramente contestualizzata perché la condizione del­la donna è tutt’altro che ri­solta: non ci saranno più le stesse condizioni, ma si arriva al medesimo risultato. Una de­nuncia in piena regola di società che vedono la donna soccombente».

Ci regala uno o due ricordi di tournée all’estero con la compagnia del Piccolo?
«La reazione degli spettatori giapponesi a Tokyo: per buona parte dello spettacolo erano in un silenzio imbarazzante per noi abituati a una partecipazione immediata, ma verso la metà hanno capito che non dovevano cercare nei nostri gesti il messaggio, come avviene nel kabuki, ma nella gestualità quotidiana e allora ci hanno sommerso di risate e di battimani. Al­l’Odeon di Parigi, invece, du­rante lo spettacolo mezza città resta al buio. Smeraldina, interpretata da Marisa Minelli, prende e fa prendere ai camerierini i candelabri di scena e inizia a se­guire gli attori mentre continua a recitare. Uno spettacolo indimenticabile. Si era creata quella dimensione per cui contava solo l’attore. Da allora Strehler ha continuato a togliere dalla scena ogni elemento scenografico, fino a far venire fuori solo l’attore».

Apprendo che aveva intrapreso studi di matematica e fisica: c’è qualcosa di matematico nella commedia dell’arte?
«Anche l’improvvisazione è studiata a tavolino, proprio come una formula matematica, ma con l’aggiunta dell’imprevedibilità».

Come ambasciatore dell’Uni­cef, ci lascia un pensiero dedicato ai bambini in questo mon­do orribile?
«Fa male sapere che ancora oggi qualcuno pensa che sia la guerra il modo migliore per farsi comprendere. Di­men­ti­cando quanto l’uso della parola, della comprensione del va­lore della diversità, della storia che i popoli difendono siano di gran lunga le armi migliori. Lo scempio del contrario è sotto gli occhi di tutti».

A cura di Alessandra Bernocco