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«Cesare Pavese a teatro Viaggio nelle identità»

Pierluigi Vaccaneo, direttore della Fondazione di Santo Stefano Belbo, racconta l’ultimo progetto

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Il Festival Pavese Off è arrivato a Genova con Andrea Bosca e una nuova data dello spettacolo dedicato a “La luna e i falò” di Cesare Pavese. L’ap­puntamento, promosso da Fon­dazione Cesare Pavese e Banca d’Alba, è andato in sce­na al Teatro Gustavo Modena giovedì scorso. Ed è stato l’ennesimo sold-out per questo spettacolo che sta girando l’Italia, una produzione di Bam Teatro, per la regia di Paolo Briguglia, sul palcoscenico l’attore Andrea Bosca. L’adatta­mento del romanzo è stato realizzato da Bosca e Bri­guglia, con la consulenza della Fondazione Cesare Pa­vese di Santo Stefano Belbo. È Pierluigi Vaccaneo, il direttore, a raccontare questo progetto che, insieme a molti altri, aiuta a conservare la memoria di tutto quello che ha rappresentato il grande scrittore.
“La luna e i falò” è l’ultimo romanzo, pubblicato nel 1950, che cosa rappresenta nella produzione di Pavese?
«È la summa dei suoi contenuti, potremmo dire la sua Divina Commedia. È un riassunto del percorso di Pavese, anche dal punto di vista linguistico. Lui si ispirava alla lingua e letteratura americana, non dimentichiamo che è stato il primo a tradurre “Mo­by Dick” e ha portato la letteratura americana in Italia. “La luna e i falò” rappresenta la perfezione della sua ricerca linguistica, le prime opere erano esperimenti. Se la lingua di Pavese è creata a partire da un parlato semplice e popolare poi trasfigurato nel ritmo poetico della prosa, il linguaggio della scena ricerca la poesia nella prosa degli oggetti, dei corpi e dello spazio. La forza simbolica del teatro trasforma le cose, le ri-destina, facendo di un fil di ferro una vigna, di luci lontane una collina, di un ritmo martellante un’ambiente ed insieme la sua suggestione emotiva nel cuore di chi ascolta».
Che storia è “La luna e i falò”?
«Racconta di un viaggio alle origini, alla ricerca delle radici, in cui la realtà si fonde con la memoria e una parlata viva e vera si innesta, come fosse una vite nuova, nei tagli freschi della poesia. Sotto alle cose, ai fatti, alle vite di chi è stato signore e di chi invece era niente, Pavese intravede simboli eterni del destino umano, il rito, il mito e si incammina coi suoi personaggi in un viaggio verso il primitivo e l’ancestrale. Uomini, donne e perfino le bestie, so­no mossi da un sordo e mai pago desiderio che porta i più fragili a perdersi o a bruciare».
In genere è sempre complicato trasferire l’opera di Pavese a teatro, più di altre pare proprio costruita per la narrazione. Come ci siete riusciti così bene?
«Questo spettacolo è un’operazione coerente con testi e contenuti, Bosca e Briguglia so­no rimasti vicini al romanzo, lo hanno rispettato molto. An­drea Bosca è di Canelli, parte della sua famiglia è proprio di Santo Stefano Belbo. I paesaggi, le emozioni di Pa­vese sono anche suoi. Ed è anche per questo che il monologo tiene sempre alta l’attenzione del pubblico. Non è facile».
Oltre alla coerenza con il romanzo, quali sono i motivi di tanto successo per lo spettacolo?
«Come dice il regista, “c’è tanto del nostro essere giovani uomini in questo adattamento per il teatro: l’inquietudine, l’essersi allontanati dai luoghi di origine, il modo difficile di sentirci a casa da qualche parte”. Le storie dei personaggi de “La luna e i falò” sono le storie di ciascuno di noi che deve raggiungere la consapevolezza della sua identità di uomo. Trasfor­mare il romanzo in drammaturgia e spettacolo obbliga al confronto con una pagina scritta con sapiente bellezza, dove la maggior parte degli eventi sono collocati al passato. L’intuizione di dare corpo a tre ruoli porta la scena a vivere qui e ora, alla confidenza di Anguilla occhi negli occhi col pubblico e ad una dinamica in cui i tre personaggi coesistono continuamente, ricreando lo spazio e aprendo la scena ad un controcanto di azioni legate dal filo simbolico dell’immaginazione, proprio come i capitoli di Pavese sono uniti dalla forza lirica della sua scrittura».
Lo spettacolo “La luna e i falò” è solo uno dei progetti della Fondazione che lei dirige, quali sono gli altri?
«Ci occupiamo di tutta quella che è l’offerta culturale turistica di Santo Stefano Belbo. Organizziamo il Festival Ce­sare Pavese, gestiamo il mu­seo e la biblioteca con mostre e incontri. Il museo racconta la vita, l’attività e le opere di Cesare Pavese in un allestimento multimediale interattivo, arricchito da inediti, libri e oggetti appartenuti allo scrittore. In biblioteca ospitiamo oltre 30mila volumi. Negli ultimi anni a Santo Stefano Belbo abbiamo registrato una crescita del 35 per cento delle presenze turistiche. È uno scrittore molto amato anche dagli stranieri, soprattutto americani grazie al suo amore e alla sua conoscenza della letteratura americana. E poi non bisogna dimenticare che il messaggio di Pavese è un messaggio universale. Di re­cente abbiamo realizzato un podcast dedicato allo scrittore e alla sua vita».
Come mai lei si è appassionato in questo modo a Cesare Pavese e da quando si occupa della Fondazione?
«Sono direttore dal 2010. Amo Pavese, mi sono laureato con una tesi sullo scrittore. E anche io sono di Santo Stefano Belbo: le sue Lune e i suoi Falò sono anche i miei».

BaNNER
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