Ogni tanto, per fare il punto e rimettere ordine nella dimensione televisiva, ci vuole la lucidità critica di Aldo Grasso.
Professore, la Rai ha festeggiato 70 anni di servizio pubblico: oggi cosa significa esattamente questo concetto?
«È difficile capirlo. Ci sono canali come Rai Storia in cui vediamo bene che cosa voglia dire, quale sia quel patrimonio culturale che appartiene a certe trasmissioni. Ma ormai il servizio pubblico appare confinato in una posizione marginale, qualcosa che non è più il core business dell’azienda. Che invece è rappresentato da quei canali paragonabili alla tv commerciale».
Prima che cosa significava fare servizio pubblico?
«Quello che Rai 1 ha ancora la forza di proporre quando trasmette il Festival di Sanremo o le partite della Nazionale: sono momenti in cui una comunità si trova davanti al piccolo schermo e in qualche modo ribadisce la centralità del mezzo televisivo. Ma appunto, si tratta di momenti, non è più come 70 anni fa quando l’apparizione della tv servì a dare un’identità all’Italia, per la prima volta la nostra comunità era riuscita ad autorappresentarsi attraverso la televisione. Oggi non ha più quella funzione».
E quale sarebbe?
«È difficile capirlo, anche perché negli ultimi trent’anni nessun direttore generale Rai si è mai preso la briga di spiegarci che cosa voglia dire servizio pubblico. Eppure sarebbe un suo dovere, per prima cosa dovrebbe spiegarci il significato. Invece nessuno l’ha fatto».
Da una parte la tv “alta” e dall’altra quella del gossip?
«Siamo in un momento di sproporzione enorme tra la tv d’intrattenimento e quella che sollecita lo spettatore. Non è poi detto che questa sollecitazione debba necessariamente venire da un programma colto che parla solo di libri, la sollecitazione può arrivare anche dall’intrattenimento o da una fiction. Però, sempre di più, sembra che gli obiettivi siano altri. C’è un continuo gioco di programmi che fanno parlare di sé attraverso i pettegolezzi o tutte quelle polemiche che sono la misura di cosa è diventata la televisione. Un luogo di chiacchiere. Un po’ come i talk show: vedere come hanno ridotto la politica è quasi umiliante. Tutto è rissa, fazione, urlo, strepito. E invitano anche le persone più pericolose dal punto di vista delle cose che affermano, lo fanno apposta per essere sicuri della rissa, meccanismo classico per alzare l’ascolto. È una televisione in cui nessuno si assume più il compito di essere responsabile, non lo fa il conduttore e non lo fa la rete».
Invece a Sanremo c’è stato un eccesso di responsabilità (vedi la libertà di parola negata a Ghali)?
«Sì, però non è quello il luogo dove questa responsabilità va esercitata. Lì ci sono stati ospiti importanti che hanno fatto discorsi responsabili, magari anche in quella forma un po’ ridicola delle recite, dei monologhi scritti e recitati male. La vera responsabilità però si gioca nei telegiornali, ormai diventati veramente poco attenti a quello che succede, sempre più schierati. Per non dire dei talk show di approfondimento politico».
Meglio rifugiarsi nelle piattaforme streaming?
«Molto meno di una volta, quando proponevano serie più interessanti. Il fenomeno strano è che prima si pensava che le piattaforme potessero non dico eliminare, ma far passare in secondo piano le tv generaliste. Invece sta succedendo l’opposto. Le piattaforme ospitano molti programmi di carattere generalista per ampliare il loro bacino di utenza. Le nicchie non hanno premiato, c’è bisogno di programmi che piacciano a tutti altrimenti non funzionano».
Ci sono serie come “Mare fuori” che hanno avuto successo partendo dalla tv generalista.
«È curioso: certe serie funzionano quasi meglio sulla tv generalista, anche perché tutte le tv hanno ormai la doppia modalità di visione che forse resta la vera grande novità. Prima tutti noi eravamo obbligati a seguire gli orari “ferroviari” dei palinsesti. Adesso l’esperienza in streaming ha aumentato gli ascolti. E pensare che in molti decretavano la morte della tv fino a qualche anno fa, come se la nuova tv fosse solo quella delle piattaforme. In realtà questo regime misto funziona bene e “Mare Fuori” ne è l’esempio clamoroso, seguitissimo sia in streaming che alla tv generalista. E credo che questa sia la strada dei prossimi anni, i programmi con doppia valenza».
C’è una serie tv che ha visto ultimamente in streaming e che ha amato?
«Non saprei. “Berlino”? Ma è solo uno spin off della “Casa di carta”. Non ce ne sono più di fondamentali. Forse direi “Succession”… ».
Le piace l’umorismo alla Ricky Gervais, quello cinico e molto anglosassone?
«In Italia è difficile da apprezzare, non appartiene alla nostra cultura. Non a caso questi tipi di comicità da noi vengono usati nei programmi come piccole parentesi. Penso a Saverio Raimondo utilizzato un po’ come Fazio fa con la Littizzetto».
Eppure Aldo Cazzullo ottiene ottimi ascolti con i suoi approfondimenti storici.
«Sì, è stato una sorpresa per gli ascolti. Si pensa sempre che i programmi che implicano un po’ più di impegno e attenzione vadano incontro al disamore del pubblico. Invece questi programmi possono avere buoni risultati e nello specifico sono serviti a caratterizzare La 7… Per tornare a quanto dicevamo all’inizio, il servizio pubblico è fornito più dai singoli programmi che dalle reti. Il servizio pubblico è chi lo fa, non chi lo è. Lo è certamente di più il programma di Aldo Cazzullo che non, per dire, “Tale e quale” di Carlo Conti».
E le inchieste in stile “Report” oppure le denunce delle “Iene”?
«Funzionano, anche se il taglio di queste inchieste sinceramente non mi esalta. Questa aggressività, gli inseguimenti… “Le Iene” poi neanche sono giornalismo. Si trovano a metà fra inchiesta e intrattenimento, mentre “Report” è molto ideologico. Piace a chi condivide quel pensiero e molto meno a chi non ne è convinto. Che poi quali sono gli esiti di queste inchieste? Sembra sempre che il giorno dopo i carabinieri debbano arrestare tutti, ma non è così».
Ha visto la celebrazione del Costanzo Show? Una formula ancora attuale?
«Lo è così tanto che Pier Silvio Berlusconi ha proposto in diretta a Fabio Fazio di rifarla a Mediaset. A me però non ha mai esaltato, è quel tipo di tv che negli anni ha coltivato tutta una serie di volgarità. Dalla tv del dolore al pettegolezzo, all’esercizio del potere. Una televisione che comunque ha avuto successo e ha segnato un’epoca, per cui le va riconosciuto di aver occupato un posto non indifferente nella storia della tv italiana. Per mia sensibilità dico che non mi ha mai emozionato più di tanto».
È da tanto che non torna nelle Langhe?
«Ci torno spesso, invece. Magari in questo periodo la casa è un po’ fredda e aspetto il bel tempo. Però le vacanze di Natale le ho trascorse lì, a Dogliani».
CHI È
Il più accreditato critico televisivo è nato a Sale delle Langhe il 10 aprile 1948. Laureato alla Cattolica di Milano con una tesi in Storia del Cinema, scrive per il Corriere della Sera dove cura la rubrica quotidiana “a fil di rete”. Appena può trascorre le vacanze nella sua casa di Dogliani
COSA HA FATTO
Professore ordinario di Storia della radio e della televisione, è stato inoltre direttore della
programmazione radiofonica della Rai. È critico televisivo del Corriere della Sera dal 1990 e la sua rubrica online TeleVisioni ottiene da tempo un grande successo di pubblico
COSA FA
Da buon critico televisivo, gli capita spesso di accendere polemiche con le sue valutazioni sui personaggi protagonisti di approfondimenti sul piccolo schermo, nei documentari delle piattaforme o nei film