Risponde al telefono in un pomeriggio ventoso dalla campagna a nord della Francia, in Bretagna, dove si trova per un incontro con le scuole. «Scrivo anche libri per ragazzi e mi hanno chiamata qui, in questo paesino, per tenere una lezione», ci dice Chiara Mezzalama. E subito l’accento cade sul valore della cultura e su come la Francia dimostri – anche con queste iniziative – di voler investire sui giovani e quindi sul suo futuro. Ma andiamo con ordine.
Lei vive in Francia, è nata a Roma, ma ha un legame speciale con il Cuneese.
«Villafalletto è il paese di mia mamma (la contessa Elena Falletti, ndr), lì il legame della famiglia Falletti è una storia lunga diversi secoli. E la casa di famiglia è un luogo dove andiamo regolarmente per ritrovare ogni volta le nostre radici. È un posto speciale perché è la casa dei miei antenati, è legato a storie e leggende, offre protezione nei suoi ampi saloni. Un posto bello che mi ispira sempre».
Palazzo Falletti fa infatti da sfondo al suo ultimo libro, “Le nostre perdute foreste”.
«Un romanzo in cui si parla di un po’ di tutto, lo spunto è un evento tragico che capita nel periodo della pandemia. Ci sono due amanti clandestini e una morte improvvisa, con lei che non può partecipare al lutto. Ho riflettuto su cosa accade quando appunto arriva un lutto che ci colpisce da vicino e per questioni formali ci è impossibile viverlo. E allora si trova rifugio nella natura, ci si appella alle amicizie. Nel parco della casa di Villafalletto c’è un grande albero, un gelsomino, sotto al quale si ripete un rituale di famiglia legato a questo evento nel periodo della fioritura. La natura ha sempre a che fare con la meraviglia, anche perché ci mette puntualmente in contatto con noi stessi».
Suo padre, Francesco Mezzalama, è stato un diplomatico, ambasciatore d’Italia in Marocco e in Iran.
«Assieme a lui io e mio fratello abbiamo viaggiato molto vivendo tante esperienze, in diversi paesi. In Iran, per esempio, siamo arrivati all’inizio di una rivoluzione. Ricordo lo straniamento di noi bambini. Era difficile lasciare gli amici e l’Italia per adeguarsi a quella realtà, in cambio però trovavamo un’autentica ricchezza nell’opportunità di imparare una nuova lingua e conoscere un’altra civiltà. Su questo tra l’altro ho scritto “Il giardino persiano” che racconta proprio quell’esperienza degli anni ’80. Arrivammo e si sapeva ben poco di cosa stesse accadendo, ricordo che c’erano molti italiani che lavoravano nei cantieri e dovettero sospendere i lavori. Non c’erano informazioni, regnava il caos».
E veniamo alla Francia, dove attualmente vive.
«Dopo tanti anni trascorsi a Roma sentivo un po’ il bisogno di ripartire verso una nuova destinazione, come nella tradizione della famiglia. Credevo che sarei rimasta a Parigi per poco tempo, invece da allora sono passati dieci anni. Insegno Letteratura all’Istituto italiano di cultura e mi trovo bene, ho tante amicizie. Del resto Francia e Italia sono paesi cugini, c’è un flusso continuo che ci unisce. Qui hanno un’attenzione particolare per tutto ciò che è arte e cultura. Come le dicevo, mi hanno chiamato perfino in questo sperduto angolo di Bretagna per venire in una scuola e parlare di libri ai ragazzi. Provo quindi un forte senso di gratitudine verso questo Paese».
Com’è invece la storia del quadro da lei scoperto a Parigi e donato a Villafalletto?
«Un amico italiano di papà in Francia, mi aveva segnalato questo pittore cileno che aveva dipinto un quadro dove compariva la scritta “Villafalletto”. Si trattava di un’opera dedicata alla drammatica vicenda di Sacco e Vanzetti, quest’ultimo appunto originario del paese di mia mamma. Così ho conosciuto Eugenio Tellez, un artista simpaticissimo e specializzato in opere relative ai fatti di cronaca del Novecento, che ha scelto di donare quell’opera al comune di Villafalletto. Dove poi siamo andati insieme per la cerimonia della consegna, con la banda e i sindaci dei paesi vicini».
Nei libri ci sono tutte le sue esperienze di vita?
«Nella finzione mettiamo sempre dettagli che conosciamo, situazioni vissute che magari rimescoliamo. La memoria del resto è spesso invenzione, il confine dei ricordi rimane sottile, tutto è vero e tutto al tempo stesso è inventato».
Come vede l’Italia dall’estero?
«Provo sentimenti di vario tipo. Mi sento molto italiana e vivere all’estero rafforza questa caratteristica, come se si riscoprisse un’appartenenza solo osservandola da lontano. Ma provo anche molta preoccupazione per alcune situazioni che non mi piacciono. L’Italia è un Paese che ha un patrimonio culturale smisurato ma lo usa male. Siamo in una fase difficile, di transizione. Dico spesso ai miei amici francesi che l’Italia è un laboratorio politico, nel bene e nel male, ciò che accade poi arriva oltre confine».
E che cosa prova pensando al Cuneese?
«È dove vivo il tempo lento delle vacanze. Amo il suo aspetto un po’ selvaggio, preservato dall’isolamento delle valli, la sua autenticità».