Sarà per quell’aspetto lunare, per i silenzi assorti, per quell’aura evanescente che pare possa sollevarlo da terra e da tutti gli inciampi in cui incappano i comuni mortali, ma i fossanesi lo chiamano Aulico. Ancora oggi, dopo che da Fossano, lui, fossanese, se n’è andato più di vent’anni fa. Al secolo, Franco Olivero, professione musicista. Di stanza a Cuneo e di scena sui palcoscenici più disparati che si allargano dalla Granda alla Francia – teatri, ville, centri culturali – dove viene chiamato ogni volta con rinnovata fiducia. La bella vita dei battitori liberi, la dura vita dei battitori liberi.
La vita del battitore libero è più dura o è più bella?
«È più dura di certe vite ed è più bella di tutte le vite».
Sabato scorso ha partecipato al grande concerto in Duomo, a Fossano, per il centenario della nascita del Maestro Giovanni Mosca, fondatore dell’orchestra Bruni, violinista e direttore d’orchestra e di conservatorio. Più di cento musicisti tra coro e orchestra per lo “Stabat Mater” di Karl Jenkins. Che effetto le ha fatto tornare a Fossano dopo anni di latitanza?
«Latitanza a volte scambiata per snobismo ma non è così. Io vivo Fossano come un grembo e dal grembo prima o poi ci si deve allontanare, si deve guardare fuori. Ma questo ritorno mi ha fatto un effetto particolare perché è stato un ritorno ufficiale, addirittura in cattedrale. E soprattutto sono tornato con una veste scomoda».
Perché scomoda?
«Perché non ho suonato il mio strumento che è il flauto ma il duduk, uno strumento a fiato armeno a doppia ancia, della famiglia degli oboi. Il popolo armeno lo utilizza nella liturgia cristiano-copta».
E stato difficile?
«Ho dovuto imparare l’espressività di uno strumento che utilizza i microtoni (frazioni di semitono) e utilizza la tecnica del glissato, cioè del passaggio graduale da una nota all’altra. Inoltre il vibrato tipico del duduk è di mandibola, diverso dal vibrato del flauto».
Domanda profana: ma secondo lei, qualcuno si sarebbe accorto della differenza se avesse suonato il suo flauto?
«È stato proprio Jenkins ad avere indicato quali dovevano essere gli strumenti a fiato. Il suo “Stabat Mater” è stato composto nel 2008 e si inscrive in un ambito classico contemporaneo che prevede inserti di musica etnica. Il primo ad avere utilizzato il duduk al di fuori della musica etnica è stato Peter Gabriel».
Lei a quale genere si sente più vicino?
«Io vorrei sentirmi libero dall’assillo del genere. Anche se questa libertà si paga perché se non appartieni a un qualche jazz club, folk club, club di musica varia di intrattenimento, sei fuori dai circuiti».
Però i teatri li frequenta, e anche gli spazi allestiti per ospitare spettacoli di prosa. Recente è la sua collaborazione con Franco Branciaroli e Lisa Galantini ed è di lunga data il sodalizio con Luca Occelli.
«Sì perché paradossalmente il teatro permette a un musicista di essere libero. Io riesco ad adattare la mia musica concedendomi anche inserzioni osé, da Bach ad autori contemporanei. Quando suono con un attore mi viene spontaneo aderire a ciò che mi viene proposto, ma in maniera libera».
Con Luca Occelli si può quasi dire che formiate un duo: Pasolini, Giorgio Gaber, Alda Merini, Bukovskij e, soprattutto Fenoglio, sono autori che avete a vostro modo omaggiato con spettacoli dedicati, che fanno parte del vostro repertorio.
«Lavorare con Luca è come lavorare su una partitura e indipendentemente dal testo io seguo il suo ritmo e la sua enfasi. C’è un dialogo stretto tra parole e musica».
E anche tra musica e immagini, visto che ha anche operato in ambito visivo, dalla danza alla pittura.
«È la mia fruizione della musica che è immaginifica e anche quando compongo il mio rapporto con le immagini è naturale, è sempre presente un paesaggio nella mente».
Ci racconti meglio dei due spettacoli dedicati a Fenoglio, ciclicamente riproposti: “Il mio amore è Paco” dal racconto “Un giorno di fuoco” e “Quadri” da “La malora”.
«Quella di musicare dal vivo “La malora” fu una remota proposta di Luca: per me la sfida era stata fare in modo che testo e musica procedessero in parallelo e a volte in conflitto. Lo scorso anno c’è stato un restyling dello spettacolo. Invece “Il mio amore è Paco”, che era stato ripreso per volontà di Maurizio Babuin di “Santi e Briganti”, è stato interrotto per una questione legata ai diritti di “Un giorno di fuoco”. Ma abbiamo provveduto con un reading di altri racconti, sempre tratti da “Racconti del parentado e del paese”».
Si sa bene in cosa consista la malora del titolo, ma oggi cos’è, secondo lei, la malora?
«La mancanza di consapevolezza che stiamo attraversando un periodo allarmante e che noi viviamo da privilegiati. E che, nonostante i privilegi, continuiamo ad alimentare i conflitti, a cominciare da quelli verbali. Siamo una società bellicosa che non tollera le differenze e che si accontenta di camminare su strade battute, senza preoccuparsi di accogliere e integrare. Alla base c’è sempre la corsa al profitto, e il profitto viene anche perseguito attraverso la religione».
Facciamo un salto indietro: ci lasci un ricordo dei suoi esordi, Le “Quattro Storie”, un gruppo attivo tra gli anni Settanta e Ottanta capitanato da Gianmaria Testa.
«Il rapporto con Gianmaria nasce ancora prima, dal “Gruppo della Stazione”, che faceva capo a una cooperativa politicizzata. Ma Gian era sempre più incline a una scrittura poetica e la svolta verso una forma espressiva più aulica è stata naturale. Io suonavo i flauti, poi si unirono altri musicisti che venivano da un ambito folk e dalla musica celtica. Ma Gian in questo gruppo si sentiva sempre più stretto».
E lei?
«Ora dico che è stato uno dei miei nutrimenti, un dato caratteristico che ha segnato il mio percorso e se adesso sono poco propenso a stare dentro un genere specifico lo devo anche a quell’esperienza, parte del mio bagaglio e del mio linguaggio».
Ci pensa mai a Gianmaria Testa?
«Faccio fatica a pensarlo perché in realtà vorrei incontrarlo per strada e dirgli “E allora, come va?”».
Oggi giovedì 21 marzo alle ore 17.30 che appuntamento vuole dare ai cuneesi?
«Sarò a Villa Tornaforte, di nuovo ospite dell’editore Nino Aragno per un reading concerto dedicato a Emil Cioran. L’attore Massimo Rigo leggerà “Aporie per un demiurgo” e io suonerò brani per flauto e pianoforte».
Articolo a cura di Alessandra Bernocco