Le grandi migrazioni fanno parte della storia dell’umanità. Eppure, quelle con cui abbiamo a che fare oggi ci trovano impreparati. Il sociologo Stefano Allievi ce ne parla al telefono poco prima del suo appuntamento in Fondazione Mirafiore che lo ha visto impegnato nella lectio dal titolo “Di acqua e di terra”. «Gli organizzatori hanno abbinato al mio intervento il progetto “Accademia della vigna” con mio grande piacere, perché io stesso da anni cerco di costruire canali d’integrazione ragionevoli, è un bell’esperimento e ne sono felice».
Professore, da quanto tempo si occupa di migrazioni?
«Ormai da 35 anni. Sostengo, come nel titolo del mio ultimo libro, che bisogna “Governare le migrazioni”, cioè gestirle e non affrontarle ideologicamente. Le migrazioni sono come i trasporti, la sanità o l’istruzione: se si governano diventano la soluzione e non il problema».
Ma in Italia la questione è prima di tutto culturale?
«Sì, assolutamente. Il problema è culturale e politico, da un lato il pregiudizio è molto diffuso contro gli immigrati, per la loro pelle o la religione. E questo va detto esplicitamente, i problemi si risolvono quando li si nomina. Siamo tutti favorevoli alla mobilità solo se è la nostra, in uscita. Con i nostri figli siamo turbo-liberisti in questo senso, vanno ovunque. Ora l’emigrazione è ripresa ed è normale che i giovani vadano a lavorare all’estero. Difficile invece accettare che lo facciano altri. Eppure non solo dovremmo rispettare questo fenomeno, ma come dimostra anche l’Accademia della vigna, se non ci sono immigrati i grappoli restano su. Gli immigrati producono più del 10% del prodotto interno lordo di questo Paese nonostante siano pagati di meno. Sono la forza lavoro di cui abbiamo bisogno».
Perché, in particolare?
«Stiamo invecchiando, a breve la nostra età mediana sarà di 52 anni e siamo il paese più vecchio del mondo dopo il Giappone e l’unico, proprio con il Giappone, dove si vendono più pannoloni che pannolini».
Da dove nasce tale evidenza?
«È dai primi anni ’90 che abbiamo più decessi che nascite, ma ce ne accorgiamo solo adesso».
Quando ha cominciato a occuparsi del problema, 35 anni fa, il contesto era molto diverso?
«I flussi erano facilitati, era possibile entrare in Europa, in Italia. Conoscevo persone che stavano qui 6 mesi poi andavano via. Adesso tutti progressivamente hanno chiuso i canali d’ingresso, in particolare per il lavoro, impediamo di entrare, non diamo visti. Accade anche negli altri Paesi, ma in Italia è peggio e questo spiega i flussi irregolari, mai così alti. Prima c’erano picchi: pensiamo alla nave Flora dall’Albania. Il flusso durò un mese, oggi gli albanesi rappresentano anche un pezzo del nostro tessuto imprenditoriale e abbiamo italiani che vanno a lavorare in Albania, per dire quanto le cose cambino rapidamente».
Si dice: oggi manca il lavoro per gli italiani…
«Politicamente è un argomento che si vende molto bene. Ma senza immigrati avremmo più disoccupati e ci sarebbero più emigrati, non meno. Sono fasce di lavoratori diverse e questo è pazzesco che non si sappia. È un problema che dobbiamo gestire perché altrimenti avremo un impoverimento demografico molto rapido».
Di cosa abbiamo bisogno?
«Di 250mila persone all’anno e sono meno di quelle che arrivano, che tra l’altro non sono quelle che ci servono. Per colpa nostra: non essendoci canali regolari d’ingresso arrivano solo gli irregolari».
In Paesi come la Germania la situazione è diversa. Da noi la burocrazia vanifica tutto?
«Prendiamo i decreti sui flussi per i lavoratori stagionali: fatti a febbraio, le questure fissano l’appuntamento a luglio. Così nel frattempo si lavora in nero. Ecco perché dico che dovremmo gestire i problemi».
Ma la percezione delle persone è che l’immigrazione sia una minaccia e basta.
«Londra è la sesta città al mondo per numero di italiani. Se dal 1891, data del primo censimento inglese, a nostra volta noi non avessimo avuto immigrati oggi saremmo 40 milioni, con l’Inps saltata e senza lavoratori disponibili per gli anziani».
Cosa intende sottolineare?
«Che non si tratta di essere pro o contro immigrati, il problema va governato razionalmente per un interesse reciproco. Solo che bisogna farlo capire. Troppa politica, invece, illude: dice che senza loro staremmo meglio. Non è vero e non è una tendenza reversibile».
Cosa accadrà in futuro?
«Tra 20 anni magari saremo noi a emigrare in Africa dove ci sarà uno sviluppo pazzesco, la Nigeria avrà più abitanti dell’Europa. Emergeranno ancora di più Cina e Brasile in un mondo cambiato. I flussi sono a circolarità globale, non più come una volta in una sola direzione. E a proposito del Paese con più immigrati…».
La Germania?
«Pochi sanno che ha anche il maggior numero di emigrati, perché lì la gente segue opportunità, amore, studio e va negli Emirati, negli Usa…».
E in tutto ciò come si colloca la transizione climatica?
«Cerco di non leggerla in una logica catastrofista. Si sposterà un miliardo di persone? Sì ma per molti motivi. Se ci sarà lo scioglimento dei ghiacci in Groenlandia – per dire – che ha grandi risorse minerarie, nasceranno nuove città dove andranno a vivere milioni di persone. Ci sono problemi, pericoli e opportunità».
Storicamente le migrazioni non si sono mai fermate?
«Se facciamo i conti – e io li ho fatti – dal 1850 al 1900 dall’Europa sono andati via 50 milioni di persone. L’Europa all’epoca contava 250 milioni di abitanti, quindi un quinto di europei è partito. Viviamo in un ciclo di mobilità. Provi a chiedere se qualcuno è d’accordo a non fare più il turista. Non c’entra? Ma è una propensione, noi siamo una specie mobile, nella storia dell’umanità siamo stati nomadi per 23 ore e 55 minuti al giorno. Poi abbiamo scoperto l’agricoltura e alcuni si sono sedentarizzati. Ultimamente abbiamo ripreso a viaggiare perché è diventato più sicuro, facile, economico e veloce».
Sarà una società sempre più integrata o divisa?
«Tutte e due le cose. La società ha logiche potenti come scuola, lavoro e matrimoni misti. I ragazzi in Erasmus per un terzo poi sposano persone di altri Paesi. I conflitti culturali? Così come esistono le Little Italy e le China Town, ci sono sottogruppi religiosi, etnie differenti. Spesso non confliggono ma si incontrano, trovano soluzioni. Sarà una società molto più pluralista, la fantascienza peraltro ce lo racconta molto bene».
E le guerre?
«Non hanno niente a che vedere con le migrazioni. Con gli spostamenti invece sì. E ancora una volta si tratta di un problema da gestire. Con gli ucraini è emersa una realtà interessante, sono stati liberi di decidere dove andare e l’integrazione ha funzionato bene».
CHI È
Professore di sociologia all’Università di Padova. Specializzato in analisi del cambiamento
culturale e del paesaggio religioso, è tra i massimi esperti nello studio dell’islam europeo, tema a cui ha dedicato oltre un centinaio di pubblicazioni in varie lingue
COSA HA FATTO
In Fondazione Mirafiore si è occupato dell’immigrazione prendendo spunto dalla fortunata conferenza spettacolo “Di acqua e di terra. Migrazioni e altri movimenti”
COSA FA
“Governare le migrazioni” è il titolo del suo libro e anche il tema che sta portando avanti con una serie di incontri in giro per l’Italia: l’idea è che non bisogna ideologizzare il (presunto) problema ma semplicemente gestirlo