Solo omonimo del difensore juventino, Federico Gatti è il corrispondente dal Regno Unito per i canali Mediaset. Gli abbiamo chiesto di raccontarci la trasformazione in corso a Londra, città cosmopolita che ora alza muri.
Il primo ministro inglese Rishi Sunak ha introdotto nuove regole restrittive per andare a lavorare in Uk: il visto verrà dato solo a chi guadagna 38.700 sterline. Perché?
«L’obiettivo è politico. Il partito conservatore da dieci anni si barrica dietro alla lotta all’immigrazione, legale e illegale. Sulla scia della Brexit e di un dibattuto in cortocircuito, lo fa combattendo i gommoni che arrivano dalla Francia – ma i numeri sono miseri se confrontati con quelli di Italia o Grecia – e diminuendo gli immigrati regolari che arrivano per fare esperienza, con o senza contratto. Questo per dimostrare all’elettorato che, almeno sull’immigrazione si fa qualcosa. Ci sono punti per ogni qualifica: conoscenza dell’inglese, conto in banca, salario, nazionalità. Ma non basta perché arriva sempre gente, il saldo 2023 è stato di +700mila ingressi, quasi un milione di persone ogni anno si trasferisce qui legalmente. Sono indiani, pakistani, africani: il tessuto sociale sta cambiando».
Un processo avviato dopo la Brexit?
«Sì e sono numeri che inficiano le promesse elettorali del partito conservatore che vive una vera emorragia, ora è il terzo partito. Mai successo negli ultimi 40 anni. L’idea di riprendere il controllo delle frontiere non è di Sunak, ma di Boris Johnson, condivisa da tutti i primi ministri che lo hanno seguito. Per noi italiani Londra fino a qualche anno fa era la città cosmopolita e accogliente in grado di valorizzare il talento di chi veniva senza progetti, in cerca di un sogno. È diventata chiusa, per molti irraggiungibile».
E adesso?
«Difficile raggiungere la soglia di 45 mila euro ottenendo un contratto da remoto. Questa filosofia politico-economica inficia interi settori, con hotel, ristoranti e negozi che subiscono una grave carenza di personale assieme al settore piccole medie imprese che contava sulla manodopera a basso prezzo, ma anche per la ricerca che era il fiore all’occhiello del sistema britannico. I giovani sono sempre venuti qui per studiare, le università britanniche erano tra le migliori al mondo. Oggi almeno il 40% è in gravi difficoltà economiche. La lotta è tra il populismo doveroso del partito conservatore a fini elettorali e l’economia reale. Ad alzare bandiera è stato il sindaco laburista Sadik Khan che ha detto “apriamo a chi ha talento, anche senza contratto, per far ripartire una città che è in ginocchio senza immigrati”».
Da italiano, qual è adesso la sua percezione?
«Noi italiani ed europei venuti qui con una laurea avevamo sicurezze e voglia di contribuire, sentirci parte del tessuto sociale ma in realtà sulle prime pagine eravamo equiparati ai rifugiati di guerra. Il dibattito è stato subito tossico, specie prima del referendum del 2016 e la Brexit è rimasto un argomento tabù, non se ne può parlare, non si può attribuire all’uscita dall’Unione Europea le conseguenze economiche, intere industrie in fallimento (nell’ortofrutticolo non ci sono persone che raccolgono i pomodori). Non si può dire, la polvere va nascosta sotto il tappeto».
Quanto è cambiata Londra?
«Sono arrivato a 25 anni senza un progetto, per raggiungere una ragazza. In pochi giorni ho trovato un lavoro, scrivevo recensioni per i ristoranti italiani a Londra. Poi ho fatto l’application per il master e mi hanno preso tre università. Nel giro di un anno ho cominciato a lavorare per i media inglesi, Bbc e Financial Times, in una città dove regnavano entusiasmo, energia, voglia di fare. Nel 2009 Londra era la città che accoglieva tutti, alle Olimpiadi 2012 si raccontava come la più bella del mondo. C’erano russi e arabi che costruivano grattacieli, la politica economica era attrattiva per investimenti stranieri. Le start up italiane aprivano nuove aziende».
Il Regno Unito sembra sparito dal dibattito internazionale.
«Non conta più come quando era ponte tra Usa e Ue, con i vantaggi del Commonwealth. Nell’isolarsi, con l’ondata populista vista poi in America con Trump, ha perso oltre allo smalto anche una voce nel mondo. Milioni di stranieri come me si sono sentiti traditi, emarginati e disillusi vedendo un Paese sgretolarsi. Ora tutti si augurano un cambio di rotta con i laburisti».
Può essere un monito anche per altri Paesi?
«Assolutamente sì. Se a soffrire così è un Paese ricco e smart come la Gran Bretagna, si salvi chi può in Italia dove dominano i giochi di potere, le collusioni con la mafia, la corruzione, le tasse non pagate. Figuriamoci se possiamo permetterci di uscire dall’Europa».
La gente però appare consapevole: è così?
«La gente di è stufata di un partito conservatore in guerra con sé stesso. I sondaggi sono eloquenti. Se si andasse al voto domani, il partito conservatore rischierebbe la sconfitta maggiore della storia e quello laburista la miglior vittoria, superiore al ’97 con Tony Blair. Il Paese ne ha le scatole piene. Lo si è visto con la Brexit quando si poteva negoziare un accordo con l’Ue e il partito conservatore se ne uscì con un “No deal” per non perdere il consenso elettorale interno di Nigel Farage, mandando in malora l’accordo chiuso con Teresa May. Poi nell’emergenza Covid quando nessun ministro di Johnson restò immune da scandali. Ci sono più ministri dimessi che appuntati. Una barca che sta affondando, che ha puntato su Sunak per l’inflazione positiva (ma siamo in recessione tecnica) e l’unica strategia politica chiara è stata la mano tesa a Kiev fin dall’inizio».
Rigurgiti di una tradizione prestigiosa, forse. A proposito: l’isolazionismo va di pari passo con la decadenza della Corona?
«La regina Elisabetta era la figlia dell’Impero, lei che a 25 anni disse “servirò la famiglia imperiale finché vivrò”. Ora la famiglia segue la falsa riga di un Paese fragile e tutti i paradigmi stanno saltando. A livello demografico un sesto di chi vive nel Regno Unito non è nato qui, quindi l’idea della Casa reale non è più condivisa da un numero sempre maggiore di nuovi britannici che, anzi, arrivando dai luoghi in passato soggiogati dalla Gran Bretagna, non vedono con reverenza il simbolo dell’Impero. E sempre più giovani dicono “ma perché dobbiamo farci guidare da un’istituzione anacronistica?”. La Corona dovrà adattarsi sperando che la nuova coppia William e Kate sappia far tornare smalto alla monarchia».
Conosce il Piemonte?
«Ho un bellissimo rapporto con Torino e vado in vacanza nel Cusio Ossola, a Macugnaga».
CHI È
Giornalista, nato a Milano nel 1983, ha lavorato al Bureau of Investigative Journalism di Londra, organizzazione incaricata di realizzare inchieste giornalistiche per i media internazionali come Bbc e Financial Times. Si è occupato anche di inchieste in campo finanziario
COSA HA FATTO
Inizialmente ha svolto un part-time nella redazione di due riviste trimestrali di settore, Artigianato tra arte e design e Imago shop and fair. Dopo la laurea si è dedicato a un master di giornalismo alla City University of London
COSA FA
Da 15 anni vive a Londra e svolge per Mediaset il ruolo di corrispondente, dopo essersi specializzato nel giornalismo di inchiesta. Lo abbiamo visto in azione recentemente per la vicenda di Kate Middleton. Ha condotto la trasmissione “Diario di Guerra” su Rete4.