«Un gol di squadra per il mio esordio come regista»

Neri Marcorè presenta il suo film: «Meriti da condividere, ma la responsabilità è mia»

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Basta leggere la biografia di Neri Mar­corè per sorprendersi. Diplomatosi come interprete parlamentare, ha iniziato la sua carriera artistica come imitatore af­fiancato da grandi della televisione come Raffaella Carrà, Giancar­lo Magalli, Serena Dan­­dini. Attore, musicista, can­tante, pure Ufficiale dell’Ordine al merito della Re­pubblica Italia­na per il suo im­pegno civile e per aver ideato e realizzato Risor­gi­Marche, fe­stival musicale, so­lidale ed ecologico a sostegno delle comunità colpite dal s­i­sma del 2017.
Ora debutta da regista nel film “Zamora” – che è stato interamente girato a Torino -, e nel presentarlo non può mancare l’ironia: «Zamora è il mio film più bello. Anche perché è l’unico che abbia mai diretto. È stata un’esperienza entusiasmante per me, a cominciare dal rapporto umano prima ancora che professionale che si è instaurato con tutte le persone che hanno collaborato a questa produzione. Alcune le conoscevo da anni e mi ero ripromesso che laddove avessi esordito come regista mi sa­rebbe piaciuto averle ac­canto; per fortuna si sono rese quasi tutte disponibili. Al­tre le ho conosciute in questa occasione e si sono rivelate magnifiche scoperte. Se Za­mora in­con­trerà i favori del pubblico e della critica, il me­rito è di tutta la squadra, da chi ha iniziato a scrivere la storia insieme a me a chi ha messo il sigillo sui titoli di coda. In ogni caso me ne prendo tutta la responsabilità, perché il film rispecchia il mio gusto e ciò che volevo raccontare a partire dalla base del romanzo di Roberto Perrone, a cui ho voluto dedicarlo». Il film segue la storia dell’ordinato Walter Vismara: ragioniere nell’animo prima ancora che di professione, lavora come contabile in una fabbrichetta di Vigevano. Da un giorno all’altro la fabbrica chiude e il Vismara si ritrova suo malgrado catapultato in un’azienda avveniristica della vitale e operosa Milano, al servizio di un imprenditore moderno e brillante, il cavalier Tosetto (Gio­vanni Storti). Andrebbe tutto bene se non fosse che costui ha il pallino del folber (il football, secondo un neologismo di Gianni Brera) e obbliga tutti i suoi dipendenti a sfide settimanali scapoli contro ammogliati. Walter, che considera il calcio uno sport demenziale, si di­chiara portiere solo perché è l’unico ruolo che conosce e non sa che da quel momento, per non perdere l’impiego, sarà costretto a partecipare agli allenamenti settimanali, in vista della partita ufficiale del primo maggio.
Subisce così lo sfottò dei colleghi; tra questi, l’ingegner Gusperti lo ribattezza sarcasticamente “Zamora”, il fenomenale portiere spagnolo degli anni ’30. Non solo quel bauscia lo umilia in campo e lo bullizza in azienda, ma tra lui e Ada, la segretaria di cui Walter si innamora, sembra esserci del tenero. Sentendosi umiliato, tradito da una parte e deriso dall’altra, il ragioniere escogita un piano del tutto originale per vendicarsi, coinvolgendo un ex atleta ormai caduto in disgrazia.
La macchina da presa ha un occhio critico per le figure ma­schili, come spiega lo stesso regista: «I personaggi ma­schili di Zamora hanno tutti qualche limite: la riservatezza di Walter è in fondo presunzione di superiorità mista al timore di buttarsi ed esporsi allo sguardo altrui; piuttosto che aprirsi e affrontare le situazioni con maturità preferisce rifugiarsi nel risentimento e in un asfittico desiderio di vendetta. Suo padre fa il brillante in società ma è un piccolo borghese che si preoccupa più del giudizio dei vicini che di conoscere davvero suo figlio; il cavalier Tosetto, il nuovo datore di lavoro, considera il calcio una sorta di religione e obbliga dispoticamente i suoi dipendenti a praticarlo con regolarità; l’ingegnere Gusper­ti, l’antagonista sbruffone e competitivo, è un donnaiolo impenitente che lo bullizza fuori e dentro l’azienda; Cavazzoni, che di­venterà il suo mentore, è un ex portiere caduto in disgrazia dedito all’alcol e al gioco d’azzardo. Tutti, o quasi, sa­ranno chiamati a compiere un’evoluzione che possa renderli meno ridicoli e grotteschi. Le figure femminili, in­vece, sono tutte moderne e de­cisamente superiori per sen­sibilità e intelligenza». L’ultimo pensiero è dedicato agli anni ’60 che fanno da cornice alle vicende: «Dovevo inventare dei toni suggestivi ed evocativi. Era un’Italia vi­vace, allegra, ambiziosa, sulle ali di uno sviluppo economico, pervasa da un sentimento di innocenza e di entusiasmo, come succede quando ancora non si percepiscono le turbolenze dell’adolescenza e si respira a pieni polmoni l’incoscienza di un’infanzia che ci illudiamo possa essere eterna. Anche la musica dell’epoca non poteva che rispecchiare questa ricchezza. Zamora racconta del potere che ha l’amicizia nell’aiutarsi reciprocamente e risollevarsi, racconta di un Paese e di un periodo che possono essere riassaporati per un attimo col sorriso e il proditorio soffio di una carezzevole nostalgia».

Articolo a cura di Daniele Vaira