Per la nona edizione, il Premio Gratitudine di Fondazione Ospedale Alba-Bra è stato assegnato a Liliana Segre. Prima della consegna, nell’auditorium dell’ospedale Michele e Pietro Ferrero a Verduno, la senatrice 93enne è stata intervistata dal direttore della podcast company Chora ed ex direttore di Repubblica e La Stampa, Mario Calabresi. Qui il senso della parola gratitudine ha subito trovato una dimensione speciale: «Fummo improvvisamente liberate dal campo di Malchow – ha ricordato la signora Segre -, non avevo neanche 15 anni. Ci ritrovammo in strada senza preavviso. Avevamo notato il nervosismo dei nostri carcerieri, portavano via le carte. Poi in strada, abbiamo visto i soldati tedeschi togliersi la divisa lasciando a terra anche le pistole. Ne avevo una davanti a me. Sentii come un’onda sommergermi, la tentazione di prendermi la vendetta che avevo sperato. Durò un attimo, pensai che io ero diversa. Più avanti, assieme alle altre donne scheletriche che mi accompagnavano, incontrammo gli americani. Arrivavano sorridenti, allegri e generosi, buttavano cibo. Io presi un’albicocca secca e la mangiai con gusto. Aveva il sapore della libertà». Un momento che Liliana Segre non ha più dimenticato. Era il 1 maggio 1945.
Facendo riferimento a quell’istante, il direttore della Fondazione Alba-Bra, Luciano Scalise, annuncia un regalo particolare per l’ospite illustre: «Le albicocche di Magliano Alfieri, qualità “madama”». Lei sorride commossa e ringrazia. Tanti momenti speciali nel racconto della donna che ha attraversato i peggiori orrori del nazismo prima di ritrovare tristemente l’odio degli idioti via social: «Dovessi darmi un voto, oggi mi darei 3 perché non avrei mai immaginato di essere vittima di “haters” sconosciuti».
L’amarezza e il disincanto verso un mondo che continua a portare dolore. «Mio nipote che ha cambiato università e ora si è fermato mi ha detto: nonna io non so cosa voglio fare, il futuro mi fa paura. Mi sono sentita come se avessimo sbagliato tutto».
Ma l’amore fa da controcanto. «Il segreto per invecchiare bene? Essere amati», dice a Calabresi tra gli applausi. E ricorda un’altra donna speciale, Susanna Aimo. «Era di Mondovì e faceva la domestica nella casa della mia famiglia a Milano. Parlava in piemontese con mia nonna che era di Torino. Non aveva istruzione, eppure fu la prima a capire cosa stesse accadendo con le leggi razziali, rimase con noi fino alla fine». Il sindaco di Mondovì, Luca Robaldo, ha poi rievocato la nomina di Susanna tra i giusti d’Italia.
E prima dell’evento, davanti all’ingresso dell’auditorium, era stato inaugurato da Liliana Segre assieme ai sindaci Carlo Bo e Giovanni Fogliato, con il presidente della Fondazione, Bruno Ceretto, proprio l’albero dei giusti, un carrubo, dedicato a uomini e donne di Langhe e Roero che salvarono la vita degli ebrei perseguitati dal nazifascismo.
«Quando fui espulsa dalla scuola – ha spiegato Liliana Segre -, dopo le leggi razziali, solo tre bambine continuarono a essere mie amiche. Le altre invece non mi parlavano più. La gratitudine mi porta a pensare anche a loro, a quelle famiglie che lasciarono le porte aperte senza curarsi dei rischi. A quel fornitore che ci conosceva appena, ma che aveva una bambina come me e arrivò trafelato per prendermi e nascondermi nella loro casa. Io non volevo andarci, non lo conoscevo, ma lui aveva rischiato tutto pur di aiutarci».
La gratitudine – rappresentata dal “Thank You” del premio – e la beneficenza: quella che Liliana Segre continua a fare devolvendo i diritti dei suoi libri (come “La memoria rende liberi”, scritto assieme a Enrico Mentana e donato dalla Fondazione Ospedale Alba-Bra agli spettatori dell’evento): «Con mio marito, che da prigioniero come me ha sperimentato la fame, abbiamo voluto così aiutare l’Opera San Francesco di Milano che assicura sempre un pasto ai più poveri».