«Il mio punk è un cabaret noir ispirato a Elettra»

Mimosa Campironi prepara il suo terzo album nel segno di una carriera tra musica e prosa: «Canto la natura femminile. Il teatro mi ha salvato con un percorso sulle emozioni che poi è approdato a Shakespeare. Proietti? Pensava alla gente. Averone mi ha insegnato tanto»

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Scorgo una chioma ros­sa con le cuffie alle orecchie, che subito to­glie per venirmi in­contro. Siamo in una sala di incisione in un quartiere di Ro­ma, non proprio centrale, dove l’ho raggiunta mentre sta registrando il suo terzo album, do­po “La Terza Guerra” e “Hur­rah”. Titolo top secret ma argomento manifesto, un vero e proprio concept sulle ragazze e sulla sua generazione, quella non ancora entrata negli anta considerata troppo giovane per essere autorevole e troppo stagionata per essere debuttante. “Che poi se sei donna è tutto più difficile”. Lei però è nel pieno di una carriera che si divide tra musica e prosa e il suo debutto risale a quando era poco più che adolescente. Mimosa Campironi, un visetto simpatico dal sorriso aperto, un bel corpo aggraziato, esile, scattante, tante idee per la te­sta, tanti progetti e la giusta rab­bia che ha imparato a incanalare. In questo album, per esempio, previsto per febbraio 2025, anticipato da un singolo a fine ottobre.

Di cosa si tratta?
«Di un inno punk alla natura femminile, una sorta di cabaret noir ispirato al mito di Elet­tra che porta con sé una matrice di ribellione legata non soltanto al suo enorme dolore ma a una sofferenza che ha subito una trasformazione. La morte di Clitemnestra, sua madre, è anche l’uccisione di un modello femminile destinato a essere superato, è un passaggio di testimone al quale Elettra im­prime una trasformazione».

Il punk, un approdo anomalo per una musicista diplomata in pianoforte classico al conservatorio Giuseppe Verdi di Mi­lano.
«Nella musica classica non è contemplato l’errore e la perfezione deve essere assoluta. An­che se sei un bambino ti trattano come un adulto perché per gli insegnanti sei un musicista e basta. Ma le loro aspettative mi generavano ansia e vere e proprie crisi di panico».

E ne è uscita dandosi al punk?

«Ne sono uscita grazie al teatro e a un seminario con Ma­madou Dioume (attore e regista senegalese naturalizzato francese interprete del “Ma­hābhārata” di Peter Brook, nda). Un lavoro sulle emozioni e sulla persona che in un se­condo momento sarebbe ap­prodato a Shake­speare. Mi ha salvato la vita».

Infatti Shakespeare è anche l’autore che ha frequentato di più, cominciando con Giulietta diretta da Gigi Proietti. Ci la­scia un ricordo?

«Gigi pensava a un teatro per la gente, un teatro che potesse arrivare a tutti, intrattenendo sì ma con contenuti alti. Un teatro popolare, proprio come all’epoca di Shakespeare».
E a Giulietta è seguita Cordelia nel “Re Lear”, Ero in “Molto rumore per nulla” e quindi la composizione delle musiche per “La dodicesima notte” e “Come vi piace”. Una bella sfida passare dalla canzone alla musica per la scena.
«Io tratto la canzone come fosse teatro e il teatro come un racconto in musica. Per me sono due aspetti che si nutrono a vicenda».

Così ha anche pensato le musiche per “La storia”, lo spettacolo diretto da Fausto Ca­bra tratto dal romanzo di El­sa Morante?

«Sì, Fausto per me è come un fratello, un artista meraviglioso che ha le idee molto chiare ma che però si fida. E ormai sono tanti i lavori fatti insieme, da “Le città invisibili” di Calvino a un progetto in corso su Saint-Exupery che speriamo veda al più presto la luce, magari già questa estate, ma non posso dire di più».

Allora torniamo alle canzoni. In “Fame d’aria”, pluripremiata, si rivolge a qualcuno a cui chiede di parlarle dei dischi anni ’70.
«Una canzone dedicata a mio padre che era mancato da po­co. Un pezzo nato dal cuore».

Ma perché gli chiede di parlarle dei dischi anni ’70?

«Lui era un giornalista ma negli anni ’70 aveva anche cantato. E poi mi piace quello spirito là, la musica suonata e non affidata all’elettronica, l’improvvisazione di un gruppo di musicisti che si mettono insieme, come gli attori quando fanno tavolino».

Nel video, divertentissimo, vo­lano piatti e bicchieri.

«Sono convinta che gli oggetti si portino dietro una storia, anche le storie delle famiglie, come i vinili, io sono affezionata ai vinili e continuo a comprarli».

E com’è che ha scritto “Family Game”, una performance in realtà virtuale e interattiva, in cui noi spettatori assistevamo muniti di appositi occhiali?
«L’idea è nata in pandemia quando mi sono chiesta come fare a ricreare il qui e ora del teatro attraverso la tecnologia e ho voluto applicarla sia alla performance dell’attore sia alla fruizione, dotando lo spettatore di un dispositivo per cui è possibile vivere un’esperienza e non solo assistervi. La tecnologia qui non era soltanto un mezzo ma era parte integrante della drammaturgia».

Vero è che l’intreccio è da teatro pirandelliano.

«Adoro Pirandello, il tema dello scambio di identità e della maschera legata all’attore e alla vita».

Infatti in scena c’era un attore soltanto chiamato a interpretare tutti i ruoli. Diciamolo: Ales­sandro Averone è anche il suo compagno.
«È un attore meraviglioso a cui ho voluto fare un regalo. Ales­sandro ha per il teatro una passione sconfinata e mi ha insegnato a leggere i testi teatrali in modo profondo, è molto difficile leggere un testo di teatro e capirlo già a una prima lettura».

Verrà ripreso prossimamente?
«Vedremo. Per ora lo stanno studiando alla Iulm e sarà la prima prova al mondo per ca­pire come rendere fruibile la dimensione immersiva ai non udenti».

Un sogno?
«Uno spettacolo di teatro canzone ma punk, nuova frontiera del cabaret brechtiano, con i costumi steam punk».

Prego?
«Rivisitazioni punk di costumi ottocenteschi».

Ha un portafortuna, un oggetto feticcio, una piccola scaramanzia?
«Un white rabbit che si illumina, regalatomi da un’amica. Lo porto sempre in tournée e lo tengo in camerino. Poi adoro gli anelli e gli orologi».

Articolo a cura di Alessandra Bernocco