Si chiama efefilia e consiste nello smisurato piacere che si prova a contatto e alla vista di tessuti come seta, raso, velluti. L’ho scoperto sul web perché volevo capire cosa mi era successo entrando qui dentro. In questo spazio morbido, avvolgente, dove tessuti, abiti e costumi di tutte le epoche ti massaggiano gli occhi e ti fanno venire un’irresistibile voglia di toccare, palpare, strusciarti non vista in mezzo agli stand. Siamo in un prestigioso laboratorio di sartoria teatrale sito nel cuore dell’Esquilino a Roma che si chiama SlowCostume: slow, a dispetto del traffico e delle frenetiche corse da ora di punta che abbiamo lasciato di fuori. Slow, come il cibo consumato con calma e preparato con amore e santa pazienza, slow come la cura minuziosa e forse maniacale che si mette per confezionare un corsetto, per eseguire un ricamo, per tagliare un tessuto prezioso. Slow. Come quell’adagio che recita che la fretta è nemica delle cose fatte bene. Un po’ meno slow è invece il passo su scarpe basse di Silvia Aymonino, una delle quattro fondatrici di questo laboratorio, insieme a Giovanna Buzzi, Odino Artioli e Massimo Pieroni. È appena rientrata da Siracusa, costumista titolare del “Miles Gloriosus” in scena al Teatro Greco fino al 29 giugno, per cui ha creato costumi magnifici e coloratissimi. Come la sua camicia di taglio maschile che pare la tavolozza di un pittore. «È la mia divisa. Non so se dipende dal mestiere o dal fatto che viaggio molto. Pantaloni larghi e come unico vezzo le camicie da uomo con collo anni trenta, di tessuti estrosi e colori assurdi. A volte aggiungo una cravatta lenta».
Com’è andata a Siracusa?
«Molto bene. Con Leo (Leo Muscato, il regista, nda) c’è un rapporto stretto e il suo team è quello con cui lavoro da più tempo».
Quello con cui ha vinto il premio Franco Abbiati per “Agnese” di Ferdinando Paër, prodotta dal Teatro Regio di Torino.
«Un premio condiviso con le scene di Federica Parolini. Il progetto generale infatti si basava su una collaborazione strettissima tra costumi e scene che prevedevano che ogni personaggio avesse una sua casetta e doveva esserci una grande sintonia di immagini. Leo aveva un pensiero preciso su un’opera difficilissima e mai rappresentata ma proprio per questo eravamo anche più liberi».
Cosa deve fare un costumista se l’attore non è contento?
«La prima cosa è distinguere se si tratta di un capriccio o di un’esigenza vera. Ma anche in questo caso bisogna sapere spiegare: se l’attore lamenta la difficoltà a muoversi non è detto che il bustino vada corretto perché a monte potrebbe esserci una precisa indicazione di regia che vuole un movimento rigido. Lo stesso vale per i tacchi e per le scarpe dure, qualora si richieda un passo pesante. Io comunque ascolto molto e se posso accolgo i suggerimenti. Sono loro che vanno in scena però devono essere guidati perché a volte mancano di una visione d’insieme che io per ruolo devo tenere ferma».
Mi fa piacere annunciare che firmerà i costumi della Prima della Scala 2024. Ci può dare un’anticipazione?
«Per ora embargo totale. A parte il titolo che è “La forza del destino” di Verdi».
Un’opera che si svolge nell’arco di una decina di anni: come si evidenzia il passare degli anni attraverso i costumi?
«A proposito posso solo dire che la successione temporale è il cuore del progetto perché è vero che gli anni sono tanti ma da libretto la successione è quella delle stagioni, partendo dall’estate, anche se in mezzo corrono diversi anni. L’idea è quella della ruota del destino, della sua ineluttabilità».
Lei si sente una predestinata?
«Ma no! Non faccio parte di quei costumisti che fin da bambini facevano i vestiti alle bambole. Da ragazzina però lavoravo molto con le mani, dall’uncinetto ai piccoli lavori da elettricista, copiavo anche il lavoro dei falegnami. Mio padre invece, che era architetto, costruiva per noi figli, libri pop up, teatrini, plastici. Forse in questo c’è una continuità: nel passare dallo sguardo verso un oggetto piatto a uno che ne immagina la tridimensionalità».
Ma come nasce un costume?
«Il mio momento creativo è fare un collage di tutto il materiale di ricerca che mi serve prima di disegnare i bozzetti. Poi faccio dei pupazzini su un libro, piccoli come miniature e da lì i bozzetti da sottoporre al regista. E in scena i costumi finiti sono più simili ai pupazzi che ai disegni».
Dove trae ispirazione?
«Ho una biblioteca immensa e ricerco di più sui libri che sul web, perché ormai i motori di ricerca ti fanno vedere solo quello che già sai e che ti piace. Poi ogni cosa la affronto in funzione di un obiettivo».
Nel suo curriculum ci sono incontri importanti come Luca Ronconi, Piero Tosi, Maurizio Millenotti, Paul Brown, Pier Luigi Pizzi, Hugo de Ana, Gabriella Pascucci, costumista della sartoria Tirelli, dove lei ha esordito giovanissima.
«La mia fortuna, rispetto a molti coetanei, è stata entrare in bottega subito dopo il liceo. Ho afferrato la coda della cometa, gli anni in cui era ancora possibile entrare in contatto con un mondo più antico e fare poi da trait d’union con il mondo di oggi».
Che rapporto ha con i suoi collaboratori più giovani?
«Con i miei assistenti in teatro non sono possessiva. Li formo e poi se ne vanno. Di solito per lavorare nel cinema, dove i guadagni sono maggiori».
Già, il cinema. Anche lei non se lo è fatta mancare.
«Amo il cinema ma ho sempre preferito lavorare per il teatro dove il costumista è proprio parte del processo creativo. Nel cinema mi manca l’immediatezza, l’adrenalina».
Però ha segnato il suo esordio: leggo che il suo primo lavoro è stato ne “Il nome della rosa”. Immagino che avrà pure incontrato Sean Connery.
«Gli ho invecchiato il tessuto del saio. Mi chiamò Gabriella Pascucci e mi affidò le tinture e gli invecchiamenti dei tessuti, ricordo i guantini tagliati dei frati, i ricami dei messi papali. Un compito meraviglioso».
Invece com’è arrivata alle Olimpiadi invernali di Torino?
«Mi chiamò Marco Balich (organizzatore di grandi eventi nda) per affidarmi il compito di wardrobe, ruolo ancora poco conosciuto in Italia, e di nuovo mi ritrovai a collaborare con Gabriella Pescucci. Intanto Ronconi mi chiamò per fare i costumi di tre dei cinque spettacoli delle Olimpiadi invernali».
Torino sarebbe stato solo il primo di una serie di collaborazioni con le Olimpiadi. Quale ricorda con più piacere?
«Rio de Janeiro, 2016. Posso dire che la mia vita si divida in prima e dopo il Brasile. Sono stata un anno e due mesi per fare da coach ai costumisti locali e ho collaborato con una scuola dove reclutavano ragazzi dalle favelas per insegnare loro i mestieri del teatro. Una scuola finanziata da artisti dove si insegna filosofia, fotografia, educazione al bello, una vera e propria materia».
Quali sono i criteri con cui accetta un lavoro?
«Ogni volta che mi si propone un lavoro che non so fare dico di sì».
Articolo a cura di Alessandra Bernocco