«Chiamare la realtà con il suo nome ci aiuta a capirla»

Davide Enia spiega le difficoltà di ogni siciliano verso la mafia: «“Autoritratto” è come un rituale»

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Il suo insegnante di religione al liceo era don Pino Puglisi, il sacerdote contro la mafia e dalla mafia ucciso con un colpo di pistola alla nuca; da bambino giocava a calcio con Manfredi, il figlio di Paolo Borsellino, che gli abitava di fronte; aveva 22 anni quando il piccolo Giuseppe Di Matteo venne rapito, ucciso e sciolto nell’acido. E se dalla finestra di casa sua poté avvertire il boato per la strage di via D’Amelio, la polvere, i vetri rotti, proprio mentre preparava l’esame di maturità, della strage di Capaci non ha ricordi diretti. Di quel 23 maggio 1992, a diciott’anni compiuti da poco, «non ricordo dove fossi, con chi, quando e dove appresi la notizia». Davide Enia, esponente di quel teatro di narrazione che affonda nella realtà spesso ingrata del nostro Paese, direttamente esperita o frutto di ricerche mirate sul campo, attribuisce questa dimenticanza a una sorta di difesa emotiva, o vera e propria rimozione, che ha a che fare con la nevrosi. Perché «in Sicilia tutti abbiamo avuto, almeno fino alle stragi, un rapporto di pura nevrosi con Cosa Nostra». La sensazione di essere costantemente in pericolo, sotto controllo, oggetto di intimidazioni più o meno esplicite, indotti o proprio costretti a non vedere, non sentire, non sapere e quindi non dire e non testimoniare. «La migliore parola è quella non detta, la prima soglia dell’omertà». Ecco, nel recente testo presentato al Festival dei Due Mon­di di Spoleto, “Autoritratto” il titolo, Enia si sofferma su questa soglia e prova, forse, a indicare una via di uscita. Una via altra che invece di condurre alla resa, alla tacita accondiscendenza di fronte a uno stato di fatto, devia, si libera dalla rete di ricatti e soprusi, piccoli e grandi, verso un’emancipazione individuale e collettiva. Come? Riconoscen­do­si parte dello stesso sistema che si vuole distruggere. Non si tratta tanto di «capire la mafia in sé, quanto cercare di comprendere la mafia in me». Capire come i meccanismi mafiosi agiscono in modo sotterraneo, condizionando, orientando, intimidendo. E allora? Allora bisogna riacquistare con la realtà un rapporto leale, riappropriarsene nominando le cose. Portando il rimosso a co­scienza. Condividendo la co­scienza individuale con quella di chi ascolta verso una coscienza collettiva risvegliata. Non incline e meno ancora disposta a normalizzare l’orrore.

«Il primo morto ammazzato l’ho visto a otto anni, tornando a casa da scuola». Eppure la sua personale rimozione risale alla prima vera strage di Stato. «Le bombe sono un fatto gigantesco e non minimizzabile. L’assassinio era normalizzato, lo si chiamava am­mazzatina, ma di fronte alle bom­be non si poteva più dire “non è nulla, cose che succedono”. Paradossalmente le bombe sono state una liberazione nel senso che si è slatentizzata la nevrosi del rapporto con Cosa Nostra».

In che modo la modalità mafiosa agisce in chi non ne fa parte?
«Il problema è sistemico. Noi siamo un Paese delle mezze verità e le mezze verità sono bugie. Ma la genuflessione alla dottrina del silenzio appartiene al bacino del Mediterraneo, da millenni. Già nel Deuteronomio c’è un passo in cui si dice che se si in­contra un morto ammazzato e non si sa chi lo ha ucciso bisogna far credere che non sia successo niente (“le nostre mani non han­no sparso questo sangue né i nostri occhi hanno visto”)».

Ma come si fa a “comprendere la mafia che c’è in me”?

«È una sorta di processo di autoanalisi in cui capire perché abbiamo tanta difficoltà a nominare le cose. C’è una totale assenza di impulsi a nominare il desiderio che non fa che rafforzare la logica del patriarcato dalla quale deriva. Se non riusciamo a nominare le cose non ne possiamo uscire: per questo, per esempio, non riusciamo a liberarci dal fascismo».

Lei ha difficoltà a nominare il desiderio?
«Sono fortunato perché sono nato in una famiglia che mi ha lasciato libero e il mio desiderio non è mai stato ostacolato, però per noi era difficile dire a una ragazza “mi piaci”. Credo, con Gesualdo Bufalino, che per sconfiggere la mafia occorra un esercito di maestri elementari».

Per imparare fin da bambini a nominare le cose?
«Sì. E per arrivare a ridiscutere la grammatica del nostro esistente. Bisogna arrivare nei luoghi di marginalità: dando lavoro, ridistribuendo ricchezze, dando ac­qua e luce dove non ci sono. Oggi la mafia agisce a livello di mercato finanziario ma sempre secondo la logica delle mezze verità».

Lei parla di patriarcato anche per indicare l’intoccabilità dell’autore da mettere in scena. Quanto è lecito emanciparsi da un classico?
«Quando ci si appropria di un testo bisogna sempre comprenderne i riferimenti storici e culturali e individuarne i punti di contatto. Io quando non ne ho, faccio parlare un personaggio, se­condo la logica del rimbalzo. Bisogna fidarsi delle parole se meritevoli di fiducia ma se si parla un’altra lingua è necessaria una riscrittura. In questo senso tradire un testo è l’unico modo per tramandarlo».

E il suo modo di tradire è il suo stesso modo di fare teatro, creando e ricreando immaginari a partire dalla realtà, giocando con il dialetto, la recitazione, il canto e il cunto ed evocando emozioni e sensazioni anche attraverso la sinestesia.
«Da artista del teatro mi domando sempre che cosa possa offrire il teatro rispetto agli altri linguaggi e la risposta è una scelta radicale non soltanto sul palco ma nella scomposizione dei segni scenici per ricreare un immaginario riconoscibile, appunto. Un doppio passo di intimità singola e plurale. Chiaramente il mio mo­do di lavorare è figlio della geografia urbana che mi ha formato. A Palermo ci sono luoghi che in pochi metri quadri concentrano 1.800 anni di storia. Po­che città offrono immediatamente al tuo campo visivo così tante epoche e una ricchezza di simboli che si sovrappongono».

Però non è soltanto Palermo il riferimento geografico dei suoi testi. Penso, per esempio, a Lampedusa de “L’abisso”.

«Il mio lavoro è simile a quello dell’antropologo sia perché vado io stesso nei luoghi di cui parlo sia perché c’è alla base una reale comprensione delle dinamiche dell’ascolto, non solo attraverso il racconto ma al modo in cui si racconta, al corpo e al linguaggio fisico di chi racconta. Sono una spugna, sento le parole e cerco di restituirle grazie a un lavoro di allontanamento dal narcisismo. Quello che faccio non è uno spettacolo ma un rituale, un atto performativo con i nervi scoperti. “Au­toritratto” è una tragedia che si annuncia a livello fenomenico in cui le parole sono porte nel loro aspetto metafisico».

Mi dica ancora il perché del titolo.
«Se voglio capire la mafia che c’è in me, i riferimenti biografici sono necessari. Ma “Autoritrat­to” è un titolo mutuato dal saggio del 1969 di Carla Lonzi, critica d’arte e femminista, nel quale l’autrice dialoga con quattordici artisti chiamati a raccontarsi in una sorta di autoritratto. L’altro riferimento invece è un racconto di Borges, “L’artefice”, in cui c’è un pittore che vuole dipingere tutto il creato e inizia a dipingere ogni baia, spiraglio, insenatura, tramonto sul mare, ogni chiesa, ogni volto, ogni animale che corre, ogni festa di piazza, finché alla fine il pittore capisce che tutto quel labirinto di linee e vuoti sono il suo autoritratto».

Anni fa ricordo che durante un consesso di autori teatrali organizzato al Teatro India di Roma auspicava un azzeramento dei finanziamenti in vista di una nuova possibile palingenesi. Vediamo chi non affonda. Chiaramente una provocazione. Ora cosa auspica?
«Andrebbe ripensata radicalmente tutta la logica dei finanziamenti culturali. Il finanziamento pubblico è una conquista di civiltà, invece succede che ci siano figure di controllo con stipendi altissimi sottratti agli aspetti produttivi. È sempre stata dura per lo spettacolo dal vivo, e in passato come adesso è il settore che fa più fatica a risalire la china».

Articolo a cura di Alessandra Bernocco