Il cinema ha il potere di raccontare storie universali attraverso dettagli che parlano a ogni spettatore. Si parte da qui con Gabriele Fabbro, giovane regista italiano (classe 1996), e “Trifole – Le radici dimenticate”, il suo ultimo lavoro girato e ambientato nelle Langhe. Il film, che debutta nei cinema oggi, 17 ottobre, racconta di un legame tra generazioni e della scoperta di se stessi attraverso la riscoperta delle proprie radici. E i ricordi d’infanzia sono stati una “molla” importante anche per il regista.
Da dove nasce l’idea per “Trifole – Le radici dimenticate”?
«Fin da bambino, ho sempre provato una grande curiosità per il tartufo: ricordo che, quando andavo al ristorante, c’erano sempre uno chef o un cameriere che ti raccontavano la storia di quel tartufo, da quale trifolau gli era arrivato. E tutto questo mistero mi ha sempre incuriosito. Dopo aver finito il mio primo film, con la mia cosceneggiatrice stavamo cercando delle storie e ci è venuta l’idea di provare ad approfondire questo mondo di cercatori di tartufi. Ci siamo detti che poteva essere un incipit interessante, visto che cercare il tartufo è un po’ come fare una caccia al tesoro».
E così è venuto ad Alba?
«Sì nel 2022, sono venuto nelle Langhe senza sceneggiatura. Sono arrivato, non conoscevo nessuno e ho fatto letteralmente la spugna: ho assorbito i racconti di chiunque volesse parlare con me, dai trifolau appunto, al Centro Studi Tartufo che mi ha aiutato molto, per arrivare anche al Castello di Grinzane Cavour. Si è aperto un po’ tutto il mondo legato al tartufo e ha cominciato a raccontarmi un sacco di storie, anche sulle persone che ci lavorano. Quindi io alla fine ho preso appunti, e abbiamo “cucito” la narrazione di “Trifole”, con un approccio documentaristico. Questa è stata la cosa per me molto inusuale, ovvero che fosse un film fiction, però partendo da basi completamente reali».
Nel film si affronta il tema del ricongiungimento familiare e delle radici.
«Dalia è una giovane ragazza che, su richiesta della madre, lascia Londra per raggiungere il nonno Igor nelle Langhe, un anziano cercatore di tartufi in difficoltà economiche e di salute. Per salvare la proprietà, Igor insegna a Dalia i segreti dei trifolau. Insieme alla sua cagnolina Birba. Il film esplora non solo il loro legame familiare, ma anche il tema della riscoperta delle proprie radici e del valore delle tradizioni in una società sempre più distante dalla natura».
Per la protagonista il viaggio nelle Langhe è una scoperta.
«Dalia è un personaggio molto disconnesso dalle sue radici: è cresciuta a Londra, in una realtà moderna e tecnologica. Quando torna nelle Langhe ad aiutare il nonno, sta nel fango, in mezzo ai contadini, vive una vita molto distante dalla sua normalità. All’inizio sente tutto in maniera negativa, ma poi nasce in lei l’amore per le Langhe attraverso il nonno e le sue tradizioni».
Nel film si sente molto questo contrasto tra modernità e natura.
«Ho cercato di far riflettere lo spettatore sul fatto che non siamo padroni della natura, ma ne facciamo parte e ne dobbiamo avere rispetto. Conoscendo i trifolau ho apprezzato la loro capacità di saper aspettare, il rispetto costante delle piante e la scelta di un tempo più lento. Un aspetto di cui anche la protagonista si approprierà».
Anche lei si è “langhesizzato”?
«Sono stato a Los Angeles sette anni, quindi in un mondo praticamente modernissimo, dove c’è poca natura. Sono cresciuto con questa idea di fretta, di ottenere tutto subito, che è un aspetto molto legato al lavoro. E stando lì, nelle Langhe, ho scoperto altri valori che per me, in questo momento della mia vita, hanno uno spazio maggiore, a cominciare dalla natura e dalle radici. Per me è importante capire da dove nasciamo, capire il legame con la famiglia. Io sono stato via per tanto tempo e diciamo che, in un certo senso, l’ho abbandonata. Tornando in Italia ho capito quanto sia importante, invece, coltivare la famiglia, essere presente e aiutarsi, cosa da cui prima cercavo di allontanarmi».
Un domani potrebbe stabilirsi nelle Langhe?
«Ci ho vissuto dal 2022, in futuro non escludo di tornare a viverci. In Langa ho fatto tutta la post-produzione. Ora sono giovane, ho bisogno di contatti e l’estero facilita il lavoro».
Il film ha un cast di attori di rilievo come Umberto Orsini, Margherita Buy. Come è stato lavorare con loro?
«Sono stato fortunatissimo perché la produzione mi ha accontentato sulle mie prime scelte. A Umberto Orsini e Margherita Buy è proprio piaciuta la sceneggiatura. Con Umberto è nato un rapporto particolare, un feeling. Gli ho detto che mi ricordava mio nonno e all’interno del film sono nate scene non previste dalla sceneggiatura perché entrambi pensavamo potessero arricchirlo. Abbiamo sperimentato ed è stato un approccio bellissimo da parte di un gigante del cinema che si è rivelato disponibilissimo. Lo stesso vale anche per Margherita, che ha una parte più piccola, ma che ha interpretato con grande delicatezza».
La madre di Dalia è comunque una figura importante.
«Tutti i personaggi del film sono annientati dalla modernità, un pochino alterati, schizofrenici, molto innaturali. Vogliono tutte le cose in fretta, compresa Dalia all’inizio. E Margherita doveva essere questo bilanciamento tra essere la mamma single, quindi insicura, e nello stesso tempo dimostrare questa freddezza della modernità quasi robotica».
Sta lavorando a qualcosa?
«Sto scrivendo una sceneggiatura e con la mia cosceneggiatrice stiamo adattando un libro, ma preferisco ancora non dire nulla e rimanere nell’ombra, per scaramanzia».
A cura di Daniele Vaira