«Cultura e arte un atto di militanza per sé e gli altri»

Regista d’opera e di prosa, ma il mestiere del teatro Davide Livermore lo ha frequentato in tutte le forme: «La laurea honoris causa ricevuta a Torino per me è stata come un viaggio a ritroso di trent’anni»

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Più che un curriculum quello di Davi­de Livermore è una successione di pal­mares da far girare la testa. E se la sua più recente qualifica è quella di regista d’opera e di prosa, il mestiere del teatro lo ha frequentato in tutte le forme. Nel corso della sua ul­tratrentennale carriera, è stato attore, insegnante, sceneggiatore, co­re­ografo, scenografo, co­stumista, direttore del­la fotografia. Artisti come Lu­ciano Pa­varotti, Placido Do­mingo, Jo­sep Car­reras, Zubin Mehta, Mi­rella Freni, Luca Ronconi, An­drej Tarkovskij, Zhang Yimou, Ric­cardo Cha­illy fanno parte della sua biografia, oltre a Carlo Ma­yer del quale è stato allievo. E parallelamente i più prestigiosi teatri e istituzioni musicali nel mondo, dal Bolshoi al Bun­ka Kaikan di Tokyo, dall’Academy of Music di Phi­ladelphia all’ Opera di Astana, dal Teatro Real di Madrid all’Opera di Avi­gnone. Così, per citarne qualcuno. Eppure lui si schermisce e se gli do­mandi della collezione di premi, dove li tiene, espone, conserva, insomma che fine ha fatto il suo palmares, risponde che in Italia, di premi, non ne ha visti molti. All’estero sì.

Ma all’estero non ha ancora ricevuto una laurea honoris causa come quella che gli è stata appena conferita dall’U­niversità di Torino. Che effetto le ha fatto?
«Un momento molto emozionante. Un viaggio a ritroso di trent’anni. In quel giorno si sono concentrate tutte le speranze, i sogni, i traumi, i sabotaggi di una vita».

Sabotaggi?

«Fanno parte del cammino di un artista. Poi bisogna cercare di comprendere quali siano davvero i blocchi e le condizioni da superare per essere liberi, ma senza cedere a un’inutile autoanalisi».

Questo viaggio da Torino a Torino è un po’ come la chiusura di un cerchio? Da torinese come ha giocato la città nella sua formazione?
«Nasco figlio di una politica culturale straordinaria, una città do­ve è stato istituito il primo assessorato alla gioventù grazie a Fiorenzo Alfieri, una persona che mi piace ricordare perché ha dato il via a una stagione di reale apertura, di riconoscimento del valore delle arti co­me luogo di incontro di una comunità che ha molto favorito il mio desiderio di fare arte. Quella Torino insegnava che la cultura e l’arte sono sempre un atto di militanza a favore della collettività oltreché di sé stessi».

E con questo bagaglio ha fatto la strada che ha fatto fino ad approdare a Genova dove dirige da ormai quattro anni il Teatro Nazionale. Ci racconta della recentissima produzione in doppia versione prosa e lirica di “Giro di vite” di Henry James?

«Una doppia versione per una doppia inaugurazione (il 12 ottobre scorso, nda) che nasce dalla volontà di far dialogare l’Opera Carlo Felice e il Teatro Nazionale, perché sono convinto che fare cultura significhi collaborare, unire le eccellenze artistiche e culturali di un territorio. E poi è mio desiderio da sempre far incontrare prosa e lirica, due forme d’arte che si devono parlare».

Una sua nobile ossessione.

«Il mio approccio alla prosa è monteverdiano e Monteverdi parlava di armonia al servizio della poesia. Da Monteverdi nasce il teatro italiano che è l’opera, la quale non nasce con i cantanti ma dagli attori. La prosa deve riacquistare questa coscienza. In questo senso io mi sento figlio di Carmelo Bene».

Che la voce la usava come uno strumento musicale. In che modo la sua formazione musicale influenza la direzione degli attori?

«Io porto nella prosa la mia esperienza di musicista e nella musica se una nota è sbagliata è sbagliata, il ritmo o c’è o non c’è: sono elementi che esulano dal gusto personale. Io ingabbio gli attori in una partitura ma al servizio della drammaturgia e in questa partitura loro trovano una libertà espressiva».

Nessuna costrizione dunque?

«Gli attori vanno accompagnati come il direttore d’orchestra fa con il violinista al quale non si chiedono le ragioni psicologiche che potrebbero portarlo a suonare in un modo e non in un altro».

Quanto incide sul risultato l’utilizzo di amplificatori e supporti tecnologici?
«Io non uso mai l’amplificazione per fare arrivare voci che senza di essa non arriverebbero, per aumentare il volume ma per amplificare i colori, per accrescere la gamma di colori di una voce già di per sé potente, importante».

Può la musica condizionare il livello semantico di una performance?
«L’armonia al servizio della poesia dà il piano della realtà. E io sento la grande responsabilità del destino delle parole. Por­tando la musica delle parole nella prosa e la loro dimensione poetica nella lirica».

Dal 2013 al 2017 è stato direttore artistico del Centre de Per­feccionament Plácido Domingo di Valencia. Come insegnante co­me si pone?

«Sono duro ma generoso e detesto i buonismi. Non insegno mai arte scenica perché sono convinto che i movimenti debbano nascere dalle ragioni della musica e delle parole. Quando comprendi quelle ragioni, il fisico ti segue, si conforma. I due fantasmi de “Il giro di vite” sono stati miei allievi».

Ecco, veniamo allo spettacolo, anzi ai due spettacoli. Una storia macabra, quella raccontata da Henry James, che si evolve tra segreti, omissioni, allusioni, presenze sinistre che ruotano attorno a probabili episodi di violenza su due bambini.

«James ci mette spalle al muro rispetto alla possibilità di essere stati traumatizzati nella perdita della nostra fanciullezza. Ognu­no di noi ha storie diverse ma il suo spostamento sulla figura del fantasma è freudiano, il fantasma può anche essere una proiezione. Nel testo vale tutto perché i fantasmi non parlano. Nell’opera musicata da Britten invece sì e allora bisogna dar loro un corpo, una fisicità».

E quella scena completamente ribaltata prospetticamente, co­­me se la parete laterale fosse il pavimento?

«Risponde al desiderio di far vedere il mondo in soggettiva rispetto ai fantasmi. È una sce­na di grande impatto che suscita uno stupore contingentato ma che mi racconta quella stessa storia anche in termini scenotecnici».

Tra le tante esperienze all’ estero c’è anche quella con la Royal Opera House Muscat dell’Oman: come viene accolta la cultura italiana nel mondo arabo, in un ambiente protetto come il teatro?

«Quella in Oman è stata un’ esperienza bellissima che mi ha permesso di monitorare il mondo da una parte inaspettata, di rendermi conto di quanto possiamo essere significativi. Ci guardano con tanta ammirazione. In Paesi come quello, ma an­che in Cina, in Giappone, Au­stralia, Corea se dici “sono un regista italiano” vieni im­me­diatamente celebrato come rappresentante dell’ultimo avan­­posto di una grande storia».

Chiudiamo con “The opera!”, il film ispirato al mito di Orfeo girato a Torino insieme a Paolo Gep Cucco.

«Finalmente il cinema. Un’ope­ra-musical in cui il mito è trasposto nella nostra contemporaneità, ma non è giusto parlare di attualizzazione. Il mito è eterno e in quanto tale parla all’oggi. Questo è un viaggio nel dolore di lasciar andare qualcuno e questo dolore è di tutti».

Mi dica ancora che senso ha l’inveterata diatriba tra Verdi e Puccini.

«Nessuno. È che in Italia c’è sempre bisogno di fare Bartali e Coppi».

Articolo a cura di Alessandra Bernocco