«Cerca del tartufo legame profondo tra uomo e natura»

Il regista Remo Schellino premiato con lo “Zappino del Trifulau” per il documentario “Storie di alberi, cani, cercatori”. Il 6 novembre la proiezione a Dogliani, il 16 a Niella Tanaro: «Nessun filtro»

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Remo Schellino, re­gista di Dogliani, ha ricevuto lo “Zap­­pi­no del Tri­fulau” per il suo ultimo documentario, “Storie di alberi, ca­ni, cercatori”, proiettato al Cinema Mo­retta di Alba, girato sotto la direzione scientifica di Piercarlo Grimaldi. L’opera esplora la tradizione della cerca del tartufo e mostra come il legame tra uo­mo, cane e natura rappresenti una simbiosi autentica e rispettosa. Conosciuto anche per il suo cinema itinerante, che porta la cultura cinematografica nelle piazze della provincia di Cuneo, Schellino ha dedicato questo documentario a Mario Spinardi, uno dei tartufai più an­ziani, scomparso un anno e mezzo fa. “Storie di alberi, cani, cercatori” sarà proiettato il 6 novembre alle ore 21 al cinema Multilanghe di Dogliani e il 16, allo stesso orario, a Niella Tanaro.

Come nasce l’idea di un do­cumentario sulla cerca del tartufo?

«Il documentario è nato dall’idea di raccontare non solo una pratica, ma un legame profondo con la terra. Ho voluto esplorare il rapporto tra uomo e natura, facendo parlare i protagonisti direttamente. Sono le loro storie a costruire l’anima di questo lavoro. È un archivio di memoria che mantiene però un tono poetico, quasi antropologico. Non c’è nessun tipo di filtro, e avevo iniziato a lavorarci già dodici anni fa. Tra gli intervistati ci sono uomini e donne. Questo mi è parso molto bello perché le passioni non hanno età, sono inclusive e non discriminano».

Il documentario esplora il mondo del tartufo in tutte le sue sfaccettature e tradizioni, ma anche la cultura immateriale che ne deriva. Come ha strutturato questo viaggio tra i cercatori di tartufi in tutta Italia?
«Ho voluto raccontare non solo una pratica agricola, ma un pa­trimonio di conoscenze, gesti e rituali che i cercatori tramandano da generazioni. Ogni regione italiana, dal Piemonte alla Sicilia, conserva tecniche di cerca e cavatura uniche, ma c’è un filo conduttore comune: la simbiosi tra l’uomo, il cane e la natura. Questa ricerca non riguarda solo il trovare un tartufo, ma anche il rispetto per l’ambiente naturale e il ciclo della vita. Il documentario è quindi un viaggio attraverso le voci dei trifulau di ogni angolo del Paese, che raccontano il loro legame profondo con il territorio, le loro storie e la passione che li unisce».

Che ruolo ha il cane in questa tradizione?
«Il cane è più di un compagno: è una parte fondamentale della ricerca. Il rapporto tra il tartufaio e il suo cane è simbiotico, una connessione che va oltre la semplice utilità. Mi è stato raccontato da uno di loro che, anche da casa, osserva il punto in cui ha sepolto il suo cane con il quale ha passato una vita. È un affetto sincero che accompagna ogni uscita nel bosco».

Lei ha sempre cercato di portare la cultura cinematografica anche nei piccoli comuni. Cosa significa per lei il cinema itinerante?

«Per me il cinema è un’occasione per avvicinare le persone alla cultura, un modo per raccontare storie che non sempre arrivano nei grandi circuiti. Il cinema itinerante mi permette di condividere questi racconti anche con chi vive in piccoli paesi, creando un momento di comunità e di riflessione. È un’esperienza diversa, più intima, che restituisce al cinema un valore di connessione».

Il suo documentario è dedicato a Mario Spinardi, uno dei tartufai più anziani. Cosa ha rappresentato per lei questo incontro?
«Spinardi era una figura incredibile, uno di quei personaggi che trasmettono la passione e la saggezza legate alla terra. Ho voluto dedicargli il documentario per rendere omaggio alla sua esperienza e alla sua umanità. In un certo senso, rappresenta l’essenza del trifulau: una persona che, con dedizione, ha vissuto la sua vita immersa nella natura, fino a diventare parte di essa. Era un uomo che conosceva ogni albero e ogni sentiero, quasi come fosse un tutt’uno con il bosco».

Quali sono stati i momenti più emozionanti durante le riprese?

«Direi che è stato davvero speciale ascoltare la storia dei tartufai più anziani, che raccontavano i loro primi ritrovamenti. Ri­cordano ancora l’emozione di trovare il primo tartufo, come un tesoro nascosto. Per molti di loro è più che una tradizione: è un’eredità culturale che intendono tramandare, soprattutto per mantenere vivo questo legame con la natura».

Quanto è importante per lei il riconoscimento “Zappino del Trifulau”?
«Lo considero un grande onore. Questo premio è un simbolo di rispetto per la tradizione e la cultura locale. Lavoro da anni per documentare storie del no­stro territorio, e ricevere un ri­conoscimento simile mi incoraggia a continuare».

Lo “Zappino del Trifulau”, istituito dal Centro Nazionale Stu­di Tartufo, viene conferito ogni anno a figure della cultura che, come veri cercatori, hanno “sca­vato” nei saperi. «Lo Zap­pino del Trifulau celebra chi ri­porta alla luce valori e tradizioni autentiche. La cerca del tartufo non è solo una pratica, ma un modo di vivere e di essere», ha dichiarato Antonio Degiacomi, presidente del Centro Na­zionale Studi Tartufo. «Attra­verso le sue immagini e le voci dei trifulau, Schellino ha saputo cogliere l’anima di questa tradizione, restituendo al pubblico l’essenza di un mondo che parla di passione e rispetto per il territorio. Lo scorso anno il simbolico dono era andato a Paola Bonfante, botanica, pioniera delle ricerche sulle interazioni piante-microrganismi fin dagli anni ‘70 e a Rengenier C. Rit­tersma, storico, per le sue ricerche sull’uso del tartufo come strumento diplomatico da parte dei Savoia e dei loro ambasciatori».

Articolo a cura di Daniele Vaira