«Con #fabricafuturo possiamo rilanciare il lavoro industriale»

L’architetto torinese Carlo Perosino, ospite di Alambicco Talks, racconta l’ambizioso progetto: «La manifattura deve diventare “teatro della marca”»

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Il nuovo capitolo di Alam­bicco Talks, giovedì 14 novembre ad Asti, coinvolgerà anche l’architetto e designer torinese Carlo Pe­rosino, ideatore del progetto #FabricaFuturo. «È un format integrato – ci spiega – che punta a mettere insieme diverse realtà già presenti, alle quali però è fin qui mancato un direttore d’orchestra, qualcuno che si pon­ga come interlocutore per futuri clienti».

Possiamo dire che al centro ci sono le persone?

«Sì. Il tema della customer centricity è stato per anni il mantra di imprese e consulenti. Ora ci si è accorti che il vero valore dei brand è rappresentato dalle persone, dagli staff, da coloro che in realtà vengono prima ancora del prodotto e del marchio».

E voi su cosa puntate?
«Il nostro focus, a differenza di quello che già esiste nel mondo del terziario con i servizi e tutte le forme di coworking del mon­do, vuole dare supporto a chi produce beni, a quella componente di manifattura che ha bisogno di costruire, di mettere le mani sulla materia».

Non esiste già?
«C’è molto poco. Mancano am­bienti che accolgano gli stili di vita delle persone, tra l’altro cam­biati pro­fondamente dopo il Covid . Oggi, se tu vuoi essere attrattivo e tenerti in casa i ta­lenti migliori o attrarli dall’estero, devi offrire qualcosa in più. Non necessariamente uno stipendio – la realtà economica che viviamo è quella che è – ma una crescita professionale, la pos­sibilità di avere formazione in casa, spazi tecnologici adibiti alla crescita professionale, all’ in­terscambio con le persone».

Si può applicare a tutti gli ambienti di lavoro?
«Teoricamente si può, poi ci sono tipologie di aziende ai limiti. Penso al settore pesante della metallurgia o di certe lavorazioni. Ma per tutto il resto sì. Ed è il fulcro dell’economia del Paese: piange il cuore a vedere che abbiamo un capitale di im­prenditori e storie straordinarie ora proiettate in un futuro in­certo. C’è un sistema che ri­schia di cancellare molte eccellenze se queste non si trasformano, non si aggregano e non fanno sistema».

Quali sono le linee guida di #FabricaFuturo?
«Hanno una visione alta, strategica, vogliono essere attrattive per le persone, restituire continuità rispetto agli stili di vita. L’am­biente di lavoro deve es­sere un posto aperto, in cui non si entra più, come facevano i no­stri padri, con la tuta blu trovando uno scollamento totale con il fuori, la vita privata. La fabbrica, lo stabilimento, la ma­nifattura deve diventare un “tea­tro della marca”. Cosa vuol dire? Raccontare in termini an­che di comunicazione il prodotto, punto di arrivo di un processo che ha coinvolto ricerca, e­sperienza, tecnologia, talenti, per­sone. Un Heritage die­tro le mu­ra della fabbrica che oggi può essere portato come elemento di storytelling grazie ai social. Magari ho un ingegnere, un tecnico, che mi racconta co­me è nato quel prodotto, dall’interno della fabbrica, facendo ve­dere tecnologie di lavorazione, materiali. Allora ho bisogno di una scenografia, di un “teatro della marca” idoneo».

Con quali vantaggi?
«Grazie alle piattaforme digitali, la live experience ci porta nel ra­dar di interesse di potenziali partner, fornitori o clienti dall’altra parte del mondo a chilometri zero, magari evitando a quell’azienda di partecipare a dispendiose fiere che hanno di norma un’impronta carbonica drammatica».

Quanto contano cooperazione e condivisione?
«Moltissimo. Infatti andiamo a proporre social app finalizzate all’accesso, alla sicurezza e alla prenotazione di tutti i beni, i servizi che uno può trovare poi all’interno dell’azienda, della fab­brica, ma anche per condividere il proprio lavoro ed esplorare quello che viene prodotto, partecipare a forum, a corsi di formazione».

La digitalizzazione a che punto è?
«È già in atto, il confine tra realtà e digitale lo viviamo tutti i giorni in maniera anche molto diretta, attraverso tutto quello che scorre, non dico sui social ma anche sugli applicativi digitali. Nel nostro caso, uno strumento in digitale aggregativo che abilita e diventa il filtro normale per accedere a determinate funzioni e a determinati servizi all’interno di un ambiente fisico, cioè la fabbrica».

In quali ambiti potete operare?
«Tutte le industry possono essere interessate a questo processo. Tutte quelle dove ci sono per­sone, capacità di fare, lavorazioni, eccellenza. Dall’enologia al tech, alla moda».

Si sta muovendo da solo?
«Parlo di competenze, professionalità e aspetti complessi che richiedono necessariamente di­verse discipline per essere poi scaricate a terra. È il motivo per cui sto facendo da ambasciatore, ma con me ho una serie di professionisti con competenze verticali in tutte le aree. Mi riferisco a Enrico Daffonchio (foto a destra, ndr), ar­chitetto tortonese titolare di due studi importanti in Su­dafrica, ma lavora in tutto il mondo ed è partner con grandissima esperienza in #Fa­bricaFuturo con me. Poi abbiamo esperti di industria 4.0, tecnologie, relazioni con gli enti sul territorio come l’ingegner Paolo Dondo e altri in ogni settore».

Siete già partiti?
«Sì, con un primo gruppo internazionale specializzato in sistemi di sicurezza, siamo al delivery, e stiamo sviluppando lo studio di fattibilità per un’azienda nell’Interland torinese nella lo­gica di factory hotel, un plesso con oltre ai silos di manifattura esclusivi, tre aree che rendono ulteriormente sostenibile il progetto: spazi di lavoro con sale riunioni e coworking; servizi terziari, erogati all’interno co­me nursery, lavanderia, ristorante e palestra; un’area tecnica dove condividere quelle tecnologie che spesso oggi le aziende faticano a comprare, come test o di validazione o di prototipazione, stampanti che servono per il processo di produzione, ma rimangono poi in parte inutilizzate».

Un progetto rivolto ai giovani?
«Abbiamo notato che tra chi fa impresa, i giovani che hanno creduto nella loro idea e l’hanno fatta crescere, l’hanno “accelerata” e addirittura prototipata con un business model validato e finanziata, quando devono avviare una produzione, cosa fanno? Si affittano il capannone indipendente in periferia e tornano indietro di cinquant’anni mettendosi a produrre come lo facevano i padri? Allora per quel mondo, che richiede dinamicità e focus sugli investimenti, si aprono questi spazi. È una continuità anche nella manifattura, in maniera da poter garantire lo stesso tipo di attrattività e veicolazione di servizi, che credo sia irrinunciabile».