Per parlare di “Fino alla Fine”, tredicesimo film di Gabriele Muccino, dobbiamo immergerci nella visione di un regista che da oltre ventisette anni esplora il lato più profondo e contraddittorio dell’animo umano. Con quest’ultima opera, Muccino si concentra su una storia che sfida i limiti della vita, della giovinezza e del pericolo, portandoci in Sicilia con una protagonista che «incarna, nell’arco di 24 ore, una forza vitale e indomabile».
Muccino, che ha esordito alla fine degli anni Novanta per poi consacrarsi a livello internazionale con successi come “L’ultimo bacio” e “La ricerca della felicità”, sembra qui volerci parlare della natura fragile e ribelle che alberga in ognuno di noi. “Fino alla Fine” racconta la vicenda di Sophie, una giovane americana segnata da una profonda crisi interiore, che durante un viaggio in Italia incontra un gruppo di ventenni siciliani. In queste poche ore, Sophie scopre un’insospettata attrazione per il rischio e per il mistero della vita, finendo in una spirale che la spinge a esplorare ciò che si trova oltre i confini della propria zona di comfort. Un film che «non vuole essere semplicemente visto, ma vissuto – sottolinea Muccino -, perché tratta ciò di cui le nostre vite hanno un silenzioso e costante bisogno: la spinta a superare le barriere, a non accontentarsi di un’esistenza preconfezionata e programmata».
L’incontro tra Sophie e Giulio, un ragazzo siciliano segnato dalla perdita, diventa così una miccia che accende il desiderio di vivere appieno, senza rimorsi. «In un’epoca in cui le esperienze sono sempre più mediate da uno schermo -continua Muccino -, ci stiamo schiantando contro l’evidente, profondo e vitale bisogno di vivere pienamente, coinvolgendo corpo e mente per esplorare i limiti e spingerci oltre». Sophie incarna la tensione verso un’autenticità a lungo negata: una giovane che, chiusa fino a quel momento nel suo mondo fatto di studio e rigore, si ritrova in un vortice di emozioni e scelte nuove, rischiose, che la spingono fino ai confini estremi della sua esistenza.
Nel delineare il percorso del personaggio, Muccino ci fa riflettere su un tema universale: la necessità di vivere senza compromessi, spingendo il cuore oltre ogni ostacolo. È una visione che nasce, secondo le parole del regista, dal desiderio di «fare film per raccontare il mondo che assimilavo, portando il cinema nella mia vita e la mia vita nel cinema». L’ispirazione per Fino alla Fine si nutre quindi della volontà di sfidare il presente, di proporre una storia che risuona con chiunque abbia sentito, almeno una volta, il desiderio di liberarsi dai vincoli di un’esistenza prestabilita. La protagonista si trova infatti al crocevia di una scelta cruciale: smettere di essere spettatrice della propria vita e diventare finalmente l’artefice del proprio destino.
Sophie è un personaggio che si lascia avvolgere dall’energia di questo gruppo di giovani siciliani, catapultandosi in una realtà completamente nuova, sfuggente e cruda. Muccino spiega come il processo di selezione del cast sia stato essenziale per rendere autentico l’impatto emotivo della storia: «La scelta di lavorare con attori prevalentemente poco conosciuti al grande pubblico è stata considerata da me e dai produttori necessaria per permettere allo spettatore di entrare nella storia senza pregiudizi o aspettative legate a volti già noti». Questa scelta contribuisce a far vivere allo spettatore la storia in maniera diretta e priva di filtri, perché ogni personaggio porta sullo schermo una spontaneità che cattura il fascino del vivere senza protezioni.
Il film non si limita a raccontare le vicende della protagonista, ma esplora anche il contrasto linguistico e culturale che emerge dal suo incontro con un mondo così diverso dal suo. Per questo, Muccino ha voluto creare due versioni del film, una in italiano e una in inglese, girando ogni scena due volte: «Ogni scena è stata girata due volte: in inglese e in italiano. Elena Kampouris, l’interprete di Sophie, ha imparato la nostra lingua, riuscendo a consegnare un personaggio potente ed efficace in entrambe le versioni». Questa doppia lingua non è solo una scelta tecnica, ma un modo per enfatizzare la distanza culturale tra la protagonista e il contesto in cui si trova.
Nel viaggio di Sophie, ritroviamo anche una riflessione profonda sulla libertà e sul coraggio di sfidare l’ignoto. Muccino ricorda una frase celebre dal film “Braveheart” che sembra incarnare lo spirito della sua protagonista: «Ogni uomo muore, pochi uomini vivono davvero». Una scelta consapevole quella di portare Sophie su questo «orlo del baratro», rendendo visibile la sfida tra la pulsione di vita e il rischio. «Prendendo la vita di petto, vivendo con questa attitudine, si rischia anche di farsi male. Ma fin dai primi affreschi nelle caverne, l’indole umana è sempre stata attratta dall’ignoto, dalle sfide, dalle imprese che ci portano invariabilmente fuori dal perimetro della nostra zona confortevole».
Come in tutte le sue opere, Muccino invita il pubblico a riconoscere una parte di sé nei protagonisti. Sophie diventa, in qualche modo, il simbolo di una libertà pura, primitiva e quasi selvaggia, che si rispecchia in questi giovani attori, che poi non sono altro che veri e propri «ragazzi, per metà adulti e per metà ancora bambini, con tutta la loro asprezza selvaggia e impreparazione alla vita», co me li definisce lo stesso regista.
Articolo a cura di Daniele Vaira