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Il senso degli assaggi

Abbiamo intervistato Luigi Odello, docente di analisi sensoriale con origini a Murazzano: «La scuola italiana? Coniuga la scienza con l’arte di cui siamo eredi. Ma io sono stato solo un regista»

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Era il 1999, quando ho seguito il primo corso di analisi sensoriale. Per mia fortuna il docente era Luigi Odello. Dopo due giorni di full immersion mi sono portata a casa la consapevolezza di quanto fosse fondamentale saper interpretare i propri sensi in modo oggettivo, al di là di un mi piace, ma anche al di là di regole o dogmi prestabiliti che uccidono la capacità valutativa dei nostri sensi. Una scoperta che mi ha fatto affrontare con entusiasmo (e con un certo spirito critico) tutti i corsi che ho seguito: dal formaggio, al miele, dal Single Malt fino a diventare sommelier. Scorrendo il curriculum di Luigi Odello colpisce sì il numero di università in cui insegna o ha insegnato, ma molto più significative sono le sue origini.

Da Murazzano a Brescia e poi in tutto il mondo, quanto pesano le sue origini di Alta Langa?

«Molto. Nascere in una terra avara, per quanto affascinante sobilla creatività e desiderio di avventura. Mi piaceva l’agricoltura ma non avevo intenzione di fare il contadino. Crescevo in un diagramma di forze che mi collegava alla natura, alle tradizioni e all’agricoltura, ma che mi spingeva anche verso la scoperta di altre realtà. In un primo tempo vinse il vettore identitario: sei dell’Alta Langa, là dove la vite vive a stento. Partecipai alla vita dei sindacati agricoli come tecnico provinciale della Coldiretti: fu un bel modo per occuparmi di agricoltura e della mia terra. Poi, dopo il servizio militare, vinse il desiderio di conoscere il mondo: andai a lavorare in Veneto e poi a Brescia. Con il crescere dell’attività nell’ambito delle scienze sensoriali diventò possibile conoscere il mondo in qualità di docente di corsi dentro e fuori le università: Giappone, Cina, Brasile, Perù, Argentina. Culture opposte da ogni punto di vista, ma il filo conduttore della sensorialità rendeva facili le relazioni».

Quali sono stati i percorsi che l’hanno portata a essere il riferimento dell’analisi sensoriale “all’italiana”?
«Sono uscito dall’Enologica nel 1971. Eravamo tutti enotecnici con a disposizione pochi strumenti: qualche “buta” con pipette e reagenti, un ebulliometro e i cinque sensi. Questi ultimi, per frequenza d’uso e ampiezza esplorativa ci consentivano di evitare disastri. Per me l’analisi sensoriale fu la salvezza, ma cercavo metodi per rendere oggettivo un approccio in cui credevo, ma al quale mancava qualcosa. Il mio prosieguo professionale fu caratterizzato da una forte attività nel campo della ricerca e dell’innovazione, conoscendo grandi tecnici del settore, come Emile Pey­naud, Luciano Usseglio Tomasset, Mario Fregoni, Mario Ca­stino, Lamberto Paronetto, Renato Ratti e Giuseppe Versini. Di alcuni curai le pubblicazioni ed ebbi modo di porre un’infinità di domande. Nelle risposte c’erano saggezza e conoscenza, ma quando si arrivava al dunque, la loro grande fiducia si rivolgeva solo all’analisi strumentale. Intanto negli anni ’80 dagli Usa arrivavano studi in cui il concetto di oggettività veniva supportato da statistiche raffinate, ma l’analisi sensoriale mancava della profondità in cui noi italiani siamo campioni. Nel 1990 fondai il Centro Studi Assaggiatori, quasi in contrapposizione alla fredda analisi sensoriale degli americani. Costituì l’ambito di dialogo con grandi accademici: Roberto Zironi, Mario Ubigli, Vincenzo Gerbi, Giuseppe Zeppa, Eugenio Brentari. Con quest’ultimo approfondimmo i metodi statistici da usare per evitare la mutilazione della nostra tradizionale espressività e coniugare al meglio la scienza con l’arte di cui siamo eredi. È bello pensare che qualcuno mi consideri il riferimento delle scienze sensoriali, ma in realtà io sono solo stato un regista, gli attori sono stati altri, tra cui quasi duecento tesisti, tra lauree e master».

Articolo a cura di Paola Gula

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