Lo ha intervistato uno studente del classico
Giovedì 27 novembre 2014 – 9.30
In occasione della consegna del “tartufo dell’anno” a Werner Herzog al Teatro sociale di Alba, lo studente del liceo classico internazionale “Generale Govone” Federico Ruatasio (classe III B) ha avuto l’occasione di intervistare il celebre cineasta.
Herzog, lei cosa intende quando parla del concetto di “verità estatica”?
«è concetto a me molto caro e centrale nei miei film, attraverso i quali intendo andare oltre alla semplice verità dei fatti. Creando immagini cerco di risvegliare nello spettatore qualcosa di primordiale e più profondo: in questo senso per me non esiste linea di demarcazione tra finzione e documentario, i miei sono tutti film, e chi mi definisce un documentarista sbaglia completamente. Vi racconto un aneddoto: ho partecipato tempo fa a un convegno sul “cinema vérité”, sostenitore della corrispondenza diretta tra la realtà fattuale e quella filmica. I difensori di questo tipo di cinema affermano che il regista dovrebbe essere come una mosca sulla parete, limitarsi a filmare ciò che succede senza comparire e senza intervenire, come la telecamera all’ingresso di una banca. Ma questa aspetta per 15 anni prima che succeda qualcosa. Un regista, invece, deve andare alla ricerca di quel qualcosa, deve fare in modo che accada. Per me dirigere un film significa creare poesia attraverso invenzione e immaginazione, non solo registrare dei fatti. Quando sostenni questa mia posizione a quel convegno, la platea iniziò a rumoreggiare e a esprimere dissenso, allora mi alzai e me ne andai, dicendo loro: “Buon anno, falliti!”. Un esempio di come io abbia cercato di avvicinare lo spettatore a una verità più profonda si trova all’inizio del film “Lezioni di tenebra” che si apre con una frase del filosofo Blaise Pascal. In realtà è una falsa citazione, ho inventato io la frase proprio per predisporre lo spettatore verso una verità estatica, un livello profondo di lettura del film che si dovrebbe poi mantenere per tutta l’opera».
Si notano parecchie somiglianze tra il suo cinema e quello di Terrence Malick, in particolare per il modo di mettere in scena i personaggi e i paesaggi. È così?
«Sì, conosco da moltissimo tempo Malick, fin dagli esordi. Posso dire che lui abbia ricavato diverse ispirazioni dai miei film, e lo si nota in particolare ne “La sottile linea rossa”. Per lui sono stato una sorta di padre, un fratello maggiore, a livello cinematografico. Ci siamo sostenuti a vicenda in qualche situazione di difficoltà, mi ha aiutato a curarmi un ginocchio in un momento per me delicato, a volte io cucino per lui… Non abbiamo una frequentazione così stretta e abituale, ma sappiamo che io ci sono e lui pure, il nostro legame è particolare. Invece, devo dire che non condivido appieno il suo “metodo cinematografico”, perché lui è solito avere a disposizione cospicui budget per realizzare i propri film, mentre io credo che molte volte siano sufficienti non troppi soldi per portare a termine l’idea che uno ha in testa. Per esempio, Malick è abituato a girare scene molto lunghe e complesse: nel caso di “The tree of life” è arrivato a un girato di sette ore, mentre ne “La sottile linea rossa” ha realizzato un complesso di ben nove ore, per cui al momento del montaggio la produzione ha fatto sì che fossero tagliate moltissime scene (anche fondamentali ai fini del risultato finale) per arrivare a un massimo di due ore e mezza. Così facendo, Malick ha dovuto sacrificare in parte il legame che teneva unite le sequenze del film che, nonostante ciò, ha avuto un buon successo. Il fatto che Malick non si ponga questi limiti può essere visto, da parte mia, come uno svantaggio. Inoltre io sono solito girare su un luogo reale, che esiste, in quanto ho sempre voluto mettere in scena la “verità” che potevo ricavare dai paesaggi naturali e da ciò che vedevo accadere in quelle determinate location. Malick, invece, lavora molto sulla fotografia e sugli effetti speciali: posso confermare che molte scene le gira all’interno degli “studios” di Hollywood, tralasciando forse quello che per me è l’essenziale».
Ho notato che lei dà molta importanza alle inquadrature. È così? Come sono concepite?
«Credo che le inquadrature nei miei film siano uno degli aspetti più importanti. Per esempio, in “Aguirre, furore di Dio” si può notare, nella scena in cui viene ripreso Klaus Kinski su una sorta di zattera, che le mie inquadrature siano molto ricercate, e di conseguenza parecchio difficili da realizzare. In quel caso, volli effettuare un’inquadratura “circolare” all’interno di una barca che girava attorno alla zattera; tramite il movimento circolare del volto di Kinski, contrario a quello della telecamera, sono riuscito a ottenere una forma a spirale, che era proprio l’inquadratura che mi aspettavo di realizzare. Per questo le mie inquadrature hanno un’accezione fisica e devono rispettare il movimento dei corpi dei personaggi: posso dire di essere sempre riuscito a mantenere l’impostazione cinematografica che avevo concepito per ogni scena».