quando iniziarono a fare le postine, i giornali scrissero che l’innata curiosità femminile le avrebbe portate a violare la segretezza della corrispondenza. Ovviamente non accadde nulla di tutto ciò e, soprattutto, le donne dimostrarono di saper lavorare in fabbrica e coltivare i campi, tant’è che la produzione agricola rimase quasi invariata nonostante l’assenza dei maschi. Assunsero anche abitudini maschili come fumare, bere un bicchiere di vino all’osteria dopo il turno di lavoro, scioperare per i loro diritti. è stato un fenomeno molto imponente che andava raccontato». Il panorama del 1915-18 è zeppo di figure femminili eroiche e affascinanti: Cazzullo cita la spia Luisa Zeni, la dignitosa madre dei fratelli Calvi che ottennero quindici medaglie al valor militare, alcune della quali alla memoria, Margherita Kaiser Parodi, l’unica donna sepolta nel sacrario militare di Redipuglia, l’inviata di guerra Stefania Turr che inizia la professione da interventista salvo poi “ammorbidirsi”, scrivendo articoli che chiedono il diritto di voto per le donne. «Bisogna dire che i giornalisti non si comportarono bene nella grande guerra: nel tentativo di sostenere lo sforzo bellico, fu data una scarsa rappresentazione della realtà. Si scrivevano cose non viste, si esaltava l’eroismo che senza dubbio c’era, ma, per esempio, non si è mai denunciato l’uso insensato che veniva fatto della fanteria da parte degli alti ranghi militari: gli italiani, per sei volte, furono oggetto d’una sospensione del fuoco del nemico, attonito di fronte all’insensatezza di alcuni attacchi del nostro esercito», spiega l’autore. Il libro descrive il periodo a 360 gradi, riportando alla memoria, tra gli altri, episodi e testimonianze dirette che la Storia ha volutamente trascurato. Trovano spazio tra le pagine i ritorni a casa degli “scemi di guerra” attraverso le crude cartelle cliniche dei ricoverati post-traumatici nel manicomio di Teramo, un impressionante “esercito di matti”, vittime di un evento troppo più grande delle loro giovani età, le donne oggetto degli stupri avvenuti in Veneto e in Friuli (episodi meno noti rispetto a quelli della seconda guerra mondiale, raccontati al cinema da film come “La ciociara”), le vicissitudini dell’Istituto degli “orfani dei vivi” fondato per accogliere i “piccoli tedeschi” nati dalle violenze, rifiutati dagli uomini di casa e che alcune madri allattarono di nascosto per mesi, le 432.000 vittime civili dell’influenza spagnola (1918-1919) forse consapevolmente sottovalutata, i bordelli costruiti in fretta e furia al fronte, i mutilati irriconoscibili, il divieto alle famiglie italiane di inviare pacchi di viveri ai prigionieri perché considerati dallo Stato indegni in quanto venuti meno al loro dovere, le decimazioni ordinate dai comandanti per punire chi disertava i combattimenti. “La guerra dei nostri nonni” è dedicato a quei 651.000 soldati che non diventarono mai nonni e ai lori nipoti e pronipoti, perché si conservi la memoria di questo primo avvenimento in cui “sentirsi Italia”, avere un senso di identità nazionale, portò a combattere e a vincere. A tal proposito, nel periodo di stesura del libro, Aldo Cazzullo ha aperto una pagina Facebook in cui chiedeva a chiunque volesse di raccontare la guerra dei suoi nonni, riportando poi le vicende più significative nel capitolo “Spoon River su Facebook”. Il libro regala un affresco completo del primo conflitto mondiale, concentrandosi sulle emozioni e sul ruolo della memoria e custodendo un insegnamento percettibile: «La forza morale che dimostrarono i nostri nonni non può essere andata dispersa, sta a noi ritrovarla dentro noi stessi e accenderla nei nostri figli perché ci aiuti a vincere battaglie quotidiane non ancora vinte, come quella contro la crisi».